Palazzo dei Diamanti e dei capolavori
Il 22 aprile 1516, in un’officina tipografica ferrarese, terminava la stampa dell’Orlando furioso, opera simbolo del Rinascimento italiano. Nel quinto centenario della prima edizione, la Fondazione Ferrara Arte e il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo celebrano il poema con un’esposizione aperta a Palazzo dei Diamanti di Ferrara da oggi fino all’8 gennaio 2017. I visitatori si troveranno davanti a una mostra d’arte che fa dialogare fra loro dipinti, sculture, arazzi, libri, manoscritti miniati, strumenti musicali, ceramiche invetriate, armi e rari manufatti. A orchestrare questo incanto visivo è un'idea semplice: restituire l’universo di immagini che popolavano la mente di Ludovico Ariosto mentre componeva il Furioso. La rassegna è curata da Adolfo Tura e Guido Beltramini al quale abbiamo di illustrarla. Info: www.palazzodiamanti.it di Roncisvalle in prestito dal Victoria and Albert Museum. Non fonti primarie, tali visualizzazioni sono esse stesse frutto di sedimentazioni successive: la fantasia di Ariosto si nutriva a sua volta di altre fantasie, un mondo di ipotesi costruito su ipotesi precedenti.
A differenza di Jacopo Sannazaro, Ariosto non sentì il bisogno di studiare Alberti per costruire la propria casa. Né, come Pietro Bembo, volle sviluppare una collezione d’arte. Ma dalle pagine del Furioso possiamo indovinare quale avidità guidasse i suoi occhi a impadronirsi d’immagini per trarne poi spunto alle proprie fantastiche costruzioni. Queste premesse ci hanno condotto lungo la strada ardua di una paziente ricognizione delle tradizioni figurative familiari al poeta: con Tura l’abbiamo definita una filologia o, se si preferisce, una archeologia dell’immaginazione. Perseguita nella consapevolezza che – tranne rari casi - è velleitario tentare di rintracciare una trama di puntuali citazioni di opere figurative. Altrettanto fragile ogni tentativo di individuare modelli reali per le immaginifiche invenzioni spaziali ariostesche, che non si curano di una plausibilità architettonica e sono spesso in continuità con tradizioni ecfrastiche precedenti.
Più fertile ci è sembrato creare in mostra dei campi di forza fra artisti, letterati e pubblico per evidenziare una condivisione di culture letterarie e visive, costantemente intrecciate. Nella Minerva che scaccia i vizi di Mantegna per Isabella d’Este (a cui a Mantova, nel 1507, Ariosto narra un primo abbozzo del Furioso) un albero con sembianze umane ha arrotolato intorno a sé un cartiglio, con scritture in alfabeti antichi. Davanti ad esso in mostra troverete una lira da braccio antropomorfa, realizzata a Verona negli stessi anni, con un cartiglio in greco. Nel sesto canto del Furioso è Astolfo ad essere stato trasformato da Alcina in un cespuglio di mirto parlante. Potremmo continuare con la spada di Francesco I, bottino di Carlo V dopo la sconfitta di Pavia, posta di fronte al grande arazzo coevo della battaglia che rappresenta la cattura del re francese. Su un piano diverso, troverete la grande sfera di bronzo proveniente dall’obelisco vaticano, a simboleggiare la concezione della luna “metallica” che Ariosto condivideva con Leonardo. O il disegno del 1516 in cui Dürer immagina la statua di un re medievale tedesco per il mausoleo di Massimiliano I a Innsbruck, una operazione concettualmente simile, per immagine e non con i versi, a quella di Ariosto con Carlo Magno.
Questa mostra è dedicata all’Orlando Furioso (e, per parte mia, al suo studioso Marco Praloran). Accostargli Raffaello, Michelangelo, Bramante o Tiziano non è una accademica contabilità di debiti e crediti, ma la ricerca di ciò che Cesare Gnudi definì accordi profondi e naturali assonanze. Gli anni del Furioso sono quelli della stanza della Segnatura, della volta della Sistina, del nuovo San Pietro, delle Prose del Bembo. Una coralità polifonica, che ha in comune la costruzione di un linguaggio artistico, in arte come in letteratura, in grado di superare le identità regionali per divenire lingua nazionale. Tutto ciò avveniva in una penisola frantumata in litigiose realtà politiche, in balia delle potenze europee. In quella Italia in crisi, fu la cultura a credere e scommettere in una identità comune in cui riconoscersi, unificando il paese a partire dalla lingua e da un’arte che da allora trionfò in tutto il mondo come l’arte del Rinascimento italiano. E oggi?