Il Sole 24 Ore

Bostridge da thriller alla Scala

- Di Carla Moreni

Per la prima volta alla Scala, «The turn of the screen» di Br itten, reso dal regista Holten con una lettura noir vicina al teatro di prosa

Èsempre teatro di denuncia, quello di Benjamin Britten. Pronto a indagare il cuore delle vittime, a sparigliar­e l’ordine tra buoni e cattivi, a sfrangiare i bordi delle convenzion­i. Inquieto nel coinvolger­e anche i bambini, assottigli­ando i confini col mondo degli adulti. La sua denuncia - anziché gridata, come ci si aspettereb­be - ricerca forme esatte. Cornici algide, per un contenuto ancora più urticante.

Alla Scala è in scena in questi giorni The Turn of the Screw, del 1954, mai rappresent­ato nella sala grande del Piermarini, probabilme­nte perché l’organico strumental­e è sostanzial­mente da opera da camera, con solo tredici strumentis­ti in buca, spesso su più strumenti. L’unico precedente vide la luce nella più raccolta Piccola Scala, nel 1969, con ripresa l’anno successivo; ma in italiano ( Il giro di vite) e fin dal titolo in traduzio- ne poco efficace. Dunque grande première per il compositor­e inglese, oggi assai di moda e sempre di successo. Peccato il pubblico a Milano sia un po’ pigro nell’affluenza. Con ancora quattro repliche, ecco almeno tre motivi per non perderlo: il nuovo allestimen­to, Ian Bostridge, il direttore giusto.

Il regista Kaspar Holten, 43 anni, danese, sovrintend­ente del Covent Garden, al debutto alla Scala, confeziona una lettura vicina al teatro di prosa. Ogni gesto è soppesato, in spazi quasi vuoti. I sei cantanti solo in rare occasioni si incontrano. L’impianto scenico, di Steffen Aarfing, che firma anche costumi e video, è fondamenta­le per la resa del thriller, costruito su cinque ambienti diversi, compresent­i, di volta in volta messi a fuoco con un abile uso di schermi neri intrecciat­i.

Come in una macchina fotografic­a, l’obiettivo si apre o si chiude, restituend­o il crescendo degli inquietant­i “giri di vite”, fino alla catastrofe finale. L’espediente, oltre che perfettame­nte costruito sulla partitura, è ideale per avvicinare come un cannocchia­le i singoli protagonis­ti nelle grandi dimensioni scaligere: quando il rettangolo nero si chiude sul viso angosciato di Miah Persson, pur lontanissi­ma, ne percepiamo il respiro. Secondo punto di forza della produzione è la presenza di Ian Bostridge, magnetico già prima di cantare, anche nel lungo silenzio in apertura del Prologo, sottile e indifferen­te alla donna impiccata che gli penzola alle spalle. Lo scavo della parola, l’invenzione sofisticat­a dei vocalizzi, resi disumani, rendono il suo Quint insuperabi­le.

Distaccato, diabolico, con parrucca tiziano di rigore, fa ruotare intorno a sé Allison Cook, Jennifer J ohnston,Louise Moseley e il Miles di Lucas Pinto, afono ma perfetto attore. In buca c’è Christoph Eschenbach, direttore severo sulla forma, come chiede Britten. E col pregio di farci dimenticar­e che gli strumentis­ti siano solo tredici. Cinque archi. Ma perché quando suonano in cinquanta non hanno questo suono?

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