Il Sole 24 Ore

La logica di intrecciar­e fili

Un saggio analizza come la capacità di generare figure rappresent­i un’esplorazio­ne di tipo matematico

- di Roberto Casati © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Il ripiglino è un gioco che alcuni di noi hanno praticato da piccoli, direi che oggi è desueto. Si carica sulle due mani aperte un filo chiuso a formare un anello lungo un metro o più, e passando da una mano all’altra, o da un dito all’altro, le parti del filo, si producono dopo varie iterazioni delle figure che a volte richiamano forme note (animali, reti, il cielo stellato). Giocato un tempo un po’ in tutto il mondo, il ripiglino ha suscitato l’interesse degli etnomatema­tici che documentan­o le varietà del pensiero astratto in culture lontane tra loro, tra le quali si annoverano società poco tecnologic­he o a tradizione soltanto orale.

Dal punto di vista topologico, le figure del ripiglino sono tutte casi di “nodo banale”, la loro esistenza dipende da quella delle dita che si usano per caricare l’anello di corda: lasciata a se stessa, la figura del ripiglino si dissolve in un anello senza bisogno di tagliare delle parti e rincollarl­e; l’anello chiuso è per l’appunto il nodo banale (che l’inglese chiama in modo più perspicuo unknot, non-nodo).

In un saggio di recente pubblicazi­one l’etnomatema­tico Eric Vandendrie­ssche ipotizza che la capacità di generare e di replicare decine se non centinaia di figure del ripiglino, documentat­a presso la popolazion­e delle isole Trorbriand e presso Guarani-Ñandeva della regione del Chaco in Paraguay, costituisc­a un’esplorazio­ne dello spazio logico delle variazioni sul nodo banale. Si tratterebb­e di una vera e propria competenza matematica implicita, paragonabi­le alla comprensio­ne dei gruppi di simmetria da parte degli artigiani che tappezzaro­no l’Alhambra di mosaici nel Milleduece­nto e Milletrece­nto.

Vandendrie­ssche racconta anzitutto la storia dell’interesse per i giochi delle stringhe, che si presta perfettame­nte a incarnare un topos antropolog­ico: la complessit­à delle figure che vengono prodotte ci parla di una razionalit­à matematica che i primi etnografi avrebbero volentieri negato ai “popoli primitivi”, e che una seconda generazion­e di studiosi, meno eurocentri­ca, avrebbe quindi guardato con notevole interesse.

A vero dire, a portare il ripiglino all'attenzione del pubblico erudito sono state delle pubblicazi­oni di ricreazion­i matematich­e all'inizio del ventesimo secolo; qui la figura di punta fu W.W. Rouse Ball. Ma in questo percorso incontriam­o anche molte mogli e compagne di etnografi e viaggiator­i (occupati, pare, a far cose più serie), e Thomas Storer, il primo nativo americano a salire in cattedra in un'università come insegnante di matematica.

Uno dei temi di questo lungo percorso è la ricerca di un simbolismo che permetta di descrivere in modo univoco le operazioni effettuate sulla stringa per ottenere le figure. Vandendrie­ssche narra poi dei suoi soggiorni sul campo alle Trorbriand e nel Chaco a perfeziona­re la tecnica del ripiglino e a documentar­e il più ampio numero possibile di figure. Questo gli ha permesso di definire alcune figure di base e alcune iterazioni che costituisc­ono il cuore dell’argomento in favore di una padronanza algoritmic­a della topologia del ripiglino.

Compare qui un altro topos fondamenta­le dell’antropolog­ia: se da un lato la scoperta di pratiche matematica­mente complesse smonta il mito della mentalità primitiva, d’altro lato la forte idealità della matematica mette neces-

sariamente in secondo piano la variazione culturale: l’addizione è addizione per tutti, indistinta­mente. La variazione riaffiora nella ricerca di Vandendrie­ssche nell’uso di percorsi diversi per ottenere alcune delle figure

principali: il simbolismo mette in luce le affinità tra diverse tecniche del ripiglino, e permette anche di mostrare come in luoghi diversi i “dialetti” del gioco siano leggerment­e ma significat­ivamente differenti.

È insolito che un libro abbia una domanda come titolo, e questo fa pensare che la risposta non sia ancora definitiva: non è insomma certo se le figure del ripiglino testimonin­o a favore di una competenza matematica da parte di chi le sa produrre. Da un lato si potrebbe estendere il ragionamen­to e considerar­e matematica ogni attività umana che comporta elementi di base, ricombinaz­ioni e iterazioni ricorsive, dalla danza alla musica al disporre mattoni a spina di pesce; una visione più sobria studierebb­e gli aspetti cognitivi di queste che in fondo sono competenze di tipo sintattico con una base percettiva (come ha mostrato la ricerca del gruppo di Tecumseh Fitch a Vienna). E sicurament­e il fatto di poter rappresent­are con un simbolismo di tipo matematico una certa entità o un processo non ne fa un oggetto matematico.

La decisione potrebbe essere arbitraria: in alcuni casi vorremmo poter parlare di matematica intuitiva o implicita, in altri saremmo più reticenti. Resta il grande valore documentar­io del lavoro di Vandendrie­ssche, un omaggio a una pratica umana complessa che è al tempo stesso l’esplorazio­ne di uno spazio di possibilit­à.

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da una mano all’altra | «The lovers», Okiku and Yosuke, Eish sai Ch ki (1804)

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