La logica di intrecciare fili
Un saggio analizza come la capacità di generare figure rappresenti un’esplorazione di tipo matematico
Il ripiglino è un gioco che alcuni di noi hanno praticato da piccoli, direi che oggi è desueto. Si carica sulle due mani aperte un filo chiuso a formare un anello lungo un metro o più, e passando da una mano all’altra, o da un dito all’altro, le parti del filo, si producono dopo varie iterazioni delle figure che a volte richiamano forme note (animali, reti, il cielo stellato). Giocato un tempo un po’ in tutto il mondo, il ripiglino ha suscitato l’interesse degli etnomatematici che documentano le varietà del pensiero astratto in culture lontane tra loro, tra le quali si annoverano società poco tecnologiche o a tradizione soltanto orale.
Dal punto di vista topologico, le figure del ripiglino sono tutte casi di “nodo banale”, la loro esistenza dipende da quella delle dita che si usano per caricare l’anello di corda: lasciata a se stessa, la figura del ripiglino si dissolve in un anello senza bisogno di tagliare delle parti e rincollarle; l’anello chiuso è per l’appunto il nodo banale (che l’inglese chiama in modo più perspicuo unknot, non-nodo).
In un saggio di recente pubblicazione l’etnomatematico Eric Vandendriessche ipotizza che la capacità di generare e di replicare decine se non centinaia di figure del ripiglino, documentata presso la popolazione delle isole Trorbriand e presso Guarani-Ñandeva della regione del Chaco in Paraguay, costituisca un’esplorazione dello spazio logico delle variazioni sul nodo banale. Si tratterebbe di una vera e propria competenza matematica implicita, paragonabile alla comprensione dei gruppi di simmetria da parte degli artigiani che tappezzarono l’Alhambra di mosaici nel Milleduecento e Milletrecento.
Vandendriessche racconta anzitutto la storia dell’interesse per i giochi delle stringhe, che si presta perfettamente a incarnare un topos antropologico: la complessità delle figure che vengono prodotte ci parla di una razionalità matematica che i primi etnografi avrebbero volentieri negato ai “popoli primitivi”, e che una seconda generazione di studiosi, meno eurocentrica, avrebbe quindi guardato con notevole interesse.
A vero dire, a portare il ripiglino all'attenzione del pubblico erudito sono state delle pubblicazioni di ricreazioni matematiche all'inizio del ventesimo secolo; qui la figura di punta fu W.W. Rouse Ball. Ma in questo percorso incontriamo anche molte mogli e compagne di etnografi e viaggiatori (occupati, pare, a far cose più serie), e Thomas Storer, il primo nativo americano a salire in cattedra in un'università come insegnante di matematica.
Uno dei temi di questo lungo percorso è la ricerca di un simbolismo che permetta di descrivere in modo univoco le operazioni effettuate sulla stringa per ottenere le figure. Vandendriessche narra poi dei suoi soggiorni sul campo alle Trorbriand e nel Chaco a perfezionare la tecnica del ripiglino e a documentare il più ampio numero possibile di figure. Questo gli ha permesso di definire alcune figure di base e alcune iterazioni che costituiscono il cuore dell’argomento in favore di una padronanza algoritmica della topologia del ripiglino.
Compare qui un altro topos fondamentale dell’antropologia: se da un lato la scoperta di pratiche matematicamente complesse smonta il mito della mentalità primitiva, d’altro lato la forte idealità della matematica mette neces-
sariamente in secondo piano la variazione culturale: l’addizione è addizione per tutti, indistintamente. La variazione riaffiora nella ricerca di Vandendriessche nell’uso di percorsi diversi per ottenere alcune delle figure
principali: il simbolismo mette in luce le affinità tra diverse tecniche del ripiglino, e permette anche di mostrare come in luoghi diversi i “dialetti” del gioco siano leggermente ma significativamente differenti.
È insolito che un libro abbia una domanda come titolo, e questo fa pensare che la risposta non sia ancora definitiva: non è insomma certo se le figure del ripiglino testimonino a favore di una competenza matematica da parte di chi le sa produrre. Da un lato si potrebbe estendere il ragionamento e considerare matematica ogni attività umana che comporta elementi di base, ricombinazioni e iterazioni ricorsive, dalla danza alla musica al disporre mattoni a spina di pesce; una visione più sobria studierebbe gli aspetti cognitivi di queste che in fondo sono competenze di tipo sintattico con una base percettiva (come ha mostrato la ricerca del gruppo di Tecumseh Fitch a Vienna). E sicuramente il fatto di poter rappresentare con un simbolismo di tipo matematico una certa entità o un processo non ne fa un oggetto matematico.
La decisione potrebbe essere arbitraria: in alcuni casi vorremmo poter parlare di matematica intuitiva o implicita, in altri saremmo più reticenti. Resta il grande valore documentario del lavoro di Vandendriessche, un omaggio a una pratica umana complessa che è al tempo stesso l’esplorazione di uno spazio di possibilità.