Londra pronta a pagare per la City
All’esame del governo May un’opzione che potrebbe rivelarsi molto costosa per la Gran Bretagna Indennizzi alla Ue per mantenere l’industria finanziaria nel mercato unico
Mentre un eroico parrucchiere, Deir dos Santos, sfida Theresa May in Corte per garantire al parlamento l’ultima parola sulla Brexit, a Downing street si ragiona sugli zeri da mettere all’assegno per comprare l’accesso al single market, garantendosi l’esenzione dalla libera circolazione dei cittadini. L’eccezione costituzionale sui generis avviata dall’hairdresser e dalla fund manager, Gina Miller, dovrebbe giungere oggi a conclusione in attesa, comunque dell’appello davanti alla Suprema Corte a cui spetterà l’ultima parola su responsabilità, competenze e autorità di avviare l’articolo 50 di recesso dall’Unione. Ci vorrà più tempo, invece, per capire che piega prenderà l’ultima puntata della saga sulla Brexit, al vaglio del governo May. Cresce l’ipotesi di una sorta di indennizzo ai partners per consentire alla City di mantenere il passaporto, ovvero la partecipazione al mercato interno per i servizi finanziari.
Secondo il Financial Times, Theresa May non ha mai escluso di effettuare pagamenti all’Unione pur di mantenere aperto al banking l’accesso alle piazze Ue e la cosiddetta equivalenza nei regimi di regolamentazione. La signora premier si è sprecata in dichiarazioni che chiudono l’uscio all’immigrazione intracomunitaria e sbarrano il passo alle corti europee, ma è sempre rimasta silenziosa su eventuali contributi economici da versare al bilancio comune per proteggere le imprese del Regno dai rischi di hard Brexit. L’industria finanziaria - con l’automotive - è una delle più esposte ai venti del divorzio Ue.
Sulla via di un compromesso del genere si aprono però due problemi. Il primo sono i potenti brexiters del governo che hanno fatto campagna promettendo di rimpatriare miliardi di sterline oggi spesi nel bilancio comunitario. Un accordo del genere umilierebbe Londra, obbligandola a staccare all’Ue un assegno forse più rotondo di quello attuale (uscendo dall’Unione perderà infatti il cosiddetto rebate, la compensazione che si guadagnò Margaret Thatcher negli anni Ottanta). Il conto della Brexit intanto comincia a crescere. Basti considerare l’effetto già prodotto dalla debolezza della sterlina e quello provocato dall’impennata del bond a 10 anni che assicura ora rendimenti (balzo di 12 punti base a 1,22%) ai massimi dal giorno del referendum. Il secondo problema è più fondamentale: chi ha mai detto a Londra che i partners sono pronti a vendere per qualche miliardo il rischio politico della disintegrazione dell’attuale assetto Ue? Pare francamente difficile un patto economico per risolvere la Brexit. Equivarrebbe a mettere un prezzo all’esclusione della libera circolazione dei cittadini dalle intese europee. Il silenzio di Downing street sull’ipotizzato indennizzo indica che, tuttavia, questa sarà una delle strade che Londra batterà per proteggere la City.
La trattativa euro-britannica, prima ancora di cominciare, mette straordinaria pressione sull’esecutivo. Il cancelliere Philip Hammond ha liquidato come «spazzatura» le voci del suo isolamento in un governo dominato da brexiters. I “rumors”, tuttavia, dicono che la colomba Hammond sia accusata di frenare la marcia di Londra verso il divorzio da Bruxelles. Attacchi che arrivano nelle stesse ore in cui ad Hammond è stato fatto sapere che già entro il 2017 pezzi della City potranno traslocare. Lo sostiene un rapporto del think tank euro-neutrale Open Europe, sottolineando quanto il banking abbia bisogno di un orizzonte certo per potere operare.
SOTTO PRESSIONE Tra gli esponenti del governo sarebbe in difficoltà il cancelliere Hammond, favorevole a una linea negoziale più morbida