Il pericolo della neo-autarchia
Appesi al coraggio di un intraprendente coiffeur, abbarbicati alla curva di un pound vendicatore, sostenuti dalla logica che vorrebbe porre un limite all’ansia di potere di una politica con la p minuscola, i remainers, sperano ancora in una bizzarria della storia. Gli inguaribili ottimisti contano su un pronunciamento giudiziario che sancisca, per volontà della Corte sollecitata dal parrucchiere per signora, mister Dos Santos, il primato del parlamento sul referendum. Un primato che se riconosciuto potrebbe, in linea assolutamente teorica, essere capace di mettere fine alla separazione anglo-europea.
Le chance sono poche, così come va riducendosi lo spazio di chi crede che Theresa May alzi la voce in ossequio a tatticismi negoziali e non in nome di una genuina scelta ideologica, la stessa che condividono almeno due tre falchi del suo governo, il ministro per la Brexit David Davis e quello del commercio internazionale Liam Fox. Boris Johnson, foreign secretary spogliato di molte responsabilità, non può essere ascritto del tutto a quella compagnia: i proclami ne fanno membro di diritto, ma una fede politica suscettibile di troppi testacoda, impone l’esclusione. Boris, annusa l’aria e poi s’adatta a quanto di meglio tenga in vita la tenue speranza di poter diventare un giorno premier lui stesso. Il tempo passa e con la credibilità del biondo ministro si spengono anche le luci del suo ipotetico cammino verso Downing street.
Fino a quando l’aria dirà Brexit, Boris Johnson, tuttavia, dirà Brexit. E il ripetuto strepitare del responsabile del Foreign Office è ulteriore conferma della debolezza dei remainers. Resteranno fuori gioco fino a quando, crediamo, l’economia non darà una mano alla politica. A mutare le carte di una congiuntura nel segno dell’exit può essere solo un’accelerazione della crisi della sterlina, l’impennata sistematica dei rendimenti del gilt, il crollo degli investimenti esteri. Il morso della crisi potrebbe indurre a ragionevoli ripensamenti, soprattutto a ridare il primato al pragmatismo anglosassone fagocitato, come pare essere, dalla fede in un’improbabile neo- autarchia. Se, infatti, i mercati cominceranno a penalizzare il Regno Unito con continuità Downing street dovrà preoccuparsi di negoziare un accordo-ponte con l’Ue per annullare i rischi di una trattativa che potrebbe dilatarsi nei tempi, perdendosi nei dettagli di articolate intese commerciali. L’idea che si fa largo negli ambienti diplomatici è una membership britannica ad interim dello spazio economico europeo, il consesso a cui partecipa la Norvegia che dà pieno accesso al single market per partner esterni all’Ue. Il modello norvegese porta con sé l’idea stessa della soft Brexit quella che, nella congiuntura attuale, pare sconfitta. Eppure potrebbe essere questa la soluzione a tempo per gestire - per un periodo limitato - il traumatico passaggio di Londra dall’Unione europea alla ritrovata indipendenza in un mondo globale. Perché accada le colombe del governo May, a cominciare dal cancelliere Philip Hammond, devono ritrovare voce e argomenti.
A fornire la prima, ma soprattutto i secondi possono essere solo i mercati.