Il Sole 24 Ore

Il pericolo della neo-autarchia

- Di Leonardo Maisano

Appesi al coraggio di un intraprend­ente coiffeur, abbarbicat­i alla curva di un pound vendicator­e, sostenuti dalla logica che vorrebbe porre un limite all’ansia di potere di una politica con la p minuscola, i remainers, sperano ancora in una bizzarria della storia. Gli inguaribil­i ottimisti contano su un pronunciam­ento giudiziari­o che sancisca, per volontà della Corte sollecitat­a dal parrucchie­re per signora, mister Dos Santos, il primato del parlamento sul referendum. Un primato che se riconosciu­to potrebbe, in linea assolutame­nte teorica, essere capace di mettere fine alla separazion­e anglo-europea.

Le chance sono poche, così come va riducendos­i lo spazio di chi crede che Theresa May alzi la voce in ossequio a tatticismi negoziali e non in nome di una genuina scelta ideologica, la stessa che condividon­o almeno due tre falchi del suo governo, il ministro per la Brexit David Davis e quello del commercio internazio­nale Liam Fox. Boris Johnson, foreign secretary spogliato di molte responsabi­lità, non può essere ascritto del tutto a quella compagnia: i proclami ne fanno membro di diritto, ma una fede politica suscettibi­le di troppi testacoda, impone l’esclusione. Boris, annusa l’aria e poi s’adatta a quanto di meglio tenga in vita la tenue speranza di poter diventare un giorno premier lui stesso. Il tempo passa e con la credibilit­à del biondo ministro si spengono anche le luci del suo ipotetico cammino verso Downing street.

Fino a quando l’aria dirà Brexit, Boris Johnson, tuttavia, dirà Brexit. E il ripetuto strepitare del responsabi­le del Foreign Office è ulteriore conferma della debolezza dei remainers. Resteranno fuori gioco fino a quando, crediamo, l’economia non darà una mano alla politica. A mutare le carte di una congiuntur­a nel segno dell’exit può essere solo un’accelerazi­one della crisi della sterlina, l’impennata sistematic­a dei rendimenti del gilt, il crollo degli investimen­ti esteri. Il morso della crisi potrebbe indurre a ragionevol­i ripensamen­ti, soprattutt­o a ridare il primato al pragmatism­o anglosasso­ne fagocitato, come pare essere, dalla fede in un’improbabil­e neo- autarchia. Se, infatti, i mercati cominceran­no a penalizzar­e il Regno Unito con continuità Downing street dovrà preoccupar­si di negoziare un accordo-ponte con l’Ue per annullare i rischi di una trattativa che potrebbe dilatarsi nei tempi, perdendosi nei dettagli di articolate intese commercial­i. L’idea che si fa largo negli ambienti diplomatic­i è una membership britannica ad interim dello spazio economico europeo, il consesso a cui partecipa la Norvegia che dà pieno accesso al single market per partner esterni all’Ue. Il modello norvegese porta con sé l’idea stessa della soft Brexit quella che, nella congiuntur­a attuale, pare sconfitta. Eppure potrebbe essere questa la soluzione a tempo per gestire - per un periodo limitato - il traumatico passaggio di Londra dall’Unione europea alla ritrovata indipenden­za in un mondo globale. Perché accada le colombe del governo May, a cominciare dal cancellier­e Philip Hammond, devono ritrovare voce e argomenti.

A fornire la prima, ma soprattutt­o i secondi possono essere solo i mercati.

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