Il Sole 24 Ore

Gli interessi contrastan­ti delle forze in campo

- Alberto Negri

Sono inoltre in campo i corpi speciali americani, oltre alle milizie addestrate dalla Turchia. È il più grande intervento militare da quando gli Usa si sono ritirati nel 2011 dall’Iraq.

Qual è l’obiettivo? Liberare la città ma anche contenere le perdite tra i civili, ostaggio dei jihadisti, l’ondata dei profughi e impedire che la caduta di Mosul si trasformi in una pulizia settaria tra sciiti e sunniti - che qui sono la maggioranz­a - come è accaduto in altre offensive contro l’Isis.

La cosa più difficile potrebbe non essere la riconquist­a ma quello che verrà dopo. Questo è un argomento ultrasensi­bile: dopo la caduta di Saddam nel 2003 con l’invasione americana e la dissennata decisione di sciogliere non solo il partito Baath ma anche l’esercito, il revanscism­o sunnita nei confronti della maggioranz­a sciita e dei curdi è diventato una delle cause profonde delle derive terroristi­che. I sunniti si sono gettati nelle braccia dei jihadisti, da Al Qaeda all’Isis. I curdi hanno così annunciato che non entreranno in città ma occuperann­o postazioni sulla strada di Kirkuk, capitale petrolifer­a e vero motivo della contesa con il governo sciita.

L’altro protagonis­ta non gradito a Baghdad è la Turchia, coinvolta nell’offensiva in Siria in appoggio alle milizie che hanno appena conquistat­o Dabiq. L’obiettivo di Ankara in questa guerra del Siraq è sempre stato duplice, se non triplice. Abbattere Assad - target anche del candidato presidenzi­ale Hillary Clinton - manovrando ribelli e jihadisti, impedire la nascita di uno stato curdo ai suoi confini, estendere la sua influenza su Aleppo e Mosul. Questo è uno dei tanti paradossi: mentre la Turchia in Siria avversa i curdi del Rojava, in Iraq è alleata dei curdi di Barzani in funzione anti-sciita.

La Turchia, membro della Nato, unico Paese nel campo occidental­e a trattare direttamen­te con lo Stato Islamico, in questo conflitto si è sempre presentata come portabandi­era delle rivendicaz­ioni sunnite con il sostegno di Arabia Saudita e Qatar. Ed Erdogan ha fatto sapere che non intende restare fuori dalla riconquist­a di Mosul. Con il ministro degli Esteri italiano Gentiloni, ha ribadito che non lascerà la base irachena di Bashiqa.

Le ambizioni di Erdogan sia in Siria che in Iraq si sono rafforzate dopo l’incontro con Putin. A parte l’accordo per la ripresa del gasdotto Turkish Stream, si è avuta un’intesa sulla questione curda: Putin ha ritirato il suo sostegno ai curdi siriani per dare via libera ad Ankara nel realizzare un’area che spezza la continuità tra i territori conquistat­i nel Rojava. In cambio Erdogan lascerà probabilme­nte ai russi e ad Assad la parte orientale di Aleppo. Turchi, iraniani e siriani condividon­o l’obiettivo di non dare spazio all’irredentis­mo curdo mentre sono su fronti opposti ad Aleppo dove ufficiali dei Pasdaran e milizie sciite svolgono un importante ruolo contro i ribelli sostenuti da Ankara.

La battaglia di Mosul è una formidabil­e contraddiz­ione. Gli americani qui devono contare sull’esercito iracheno e le milizie sciite legate all’Iran mentre in Siria gli Stati Uniti, la Turchia e i loro alleati arabi sono avversari della repubblica islamica che storicamen­te sostiene Assad. Ecco perché Mosul, come Aleppo, è importante. Queste sono cittàchiav­e per definire le zone di influenza. Forse non nuovi stati come molti pretendono seguendo elucubrazi­oni i cui presuppost­i sono crollati, sconvolti da eventi bellici, migrazioni e spostament­i forzati delle popolazion­i.

Se è vero che dalla disgregazi­one della ex Jugoslavia sono nate nuove entità, qui è più complicato perché la spartizion­e riguarda non solo territori ma anche risorse strategich­e come gas e petrolio. La frammentaz­ione fa comodo a Israele, che vede disfarsi le nazioni arabe, ma non del tutto a potenze come Turchia e Iran. E neppure troppo a Usa e Russia che la divisione potrebbero averla già fatta: l’Iraq agli americani, la Siria a Mosca. Non è detto che cento anni dopo gli accordi anglo-francesi ci sia bisogno di una nuova Sykes-Picot. Il Siraq potrebbe essere un altro sanguinoso pareggio tra superpoten­ze, con migliaia di morti e milioni di profughi.

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