Iraq, Isis uccide a Mosul 284 civili usati come scudi umani
In fiamme impianto chimico che provoca nube tossica
Mentre l’esercito iracheno ha lanciato una nuova offensiva per conquistare la cittadina di Hamdaniyah, la Cnn riferisce di 284 civili usati come scudi umani e poi uccisi e gettati una fossa comune a Mosul.
Perché a Mosul si muore? La storia di Mosul e Kirkuk, come quella di Aleppo e della Siria, è la storia della spartizione coloniale di un secolo fa sulle spoglie dell’Impero ottomano, delle rivalità tra arabi sunniti e sciiti, delle sofferenze dei curdi, dei cristiani, dei turcomanni, degli armeni, dell’emarginazione crudele degli yezidi, della nascita artificiale dell’Iraq e del senso profondo di guerre, conflitti per il petrolio, rivolte, massacri e atti di terrorismo che agitano il cuore del Medio Oriente e sono poi arrivati dentro l’Europa.
Per questo la battaglia di Mosul riguarda tutti: è un appuntamento con la storia e con il nostro futuro. Con quella di Aleppo si inserisce nella crisi Est-Ovest e nel clima da guerra fredda e ibrida che sta opponendo Washington e Mosca. Due battaglie differenti ma con una caratteristica comune: un’impietosa disumanità, se sarà confermato che tra giovedì e venerdì l’Isis ha ucciso a Mosul 284 persone, tra loro molti ragazzi e bambini.
Per l’Isis i civili sono scudi umani, uno strumento per seminare terrore e vendetta, insieme alle autobombe degli attentatori kamikaze, alle trappole esplosive, agli incendi dei pozzi di petrolio. I corpi sono stati seppelliti in fosse comuni ricoperte di terra con i bulldozer. Le esecuzioni sono avvenute a sangue freddo, con un colpo d’arma da fuoco alla nuca.
Mentre i peshmerga curdi di Massud Barzani e le forze dell’esercito di Baghdad annunciano la liberazione di nuovi villaggi, con offensive a Tal Kayf, po- stazione strategica a 10 chilometri a nord-est di Mosul e a Hamdaniyah, località ormai quasi svuotate dalla popolazione civile, il Califfato prova a colpire dove il nemico è più vulnerabile. I jihadisti usano cellule dormienti e si infiltrano anche come rifugiati, come è avvenuto a Kirkuk con l’attacco a sorpresa di venerdì. Anche quando sarà sconfitto a Mosul in Iraq e nella sua capitale siriana, Raqqa, lo Stato Islamico continuerà a co- stituire una minaccia alla stabilità dell’area.
Intorno a Mosul si consumano le tensioni di una geopolitica sempre più mobile. Il segretario alla Difesa Usa, Ashton Carter, è giunto ieri a sorpresa in Iraq dopo una tappa delicata in Turchia. Carter ha affermato che Ankara e Baghdad hanno aggiunto un “accordo di principio” sul ruolo turco nella battaglia di Mosul. Sarebbe il secondo del genere del presidente Erdogan: il primo, secondo la stampa turca, è stato con Putin per l’evacuazione dei ribelli qaidisti di Al Nusra da Aleppo Est. Sono in atto negoziati dove si scambiano città, popolazioni e milizie come in un sanguinoso monopoli.
La battaglia di Mosul contro l’Isis e soprattutto quanto avverrà dopo ha questo significato: determinare come sarà il nuovo Iraq, che non è mai nato davvero dopo l’invasione americana e la caduta di Saddam nel 2003 quando è stato scoperchiato il vaso di Pandora delle contrapposizioni settarie e del terrorismo che ha trovato nell’Isis la sua espressione più feroce.
È il passo d’addio di Obama che ritirò le truppe dall’Iraq nel 2011 ed è stato costretto a rimandarle: un modo per rimediare i calcoli sbagliati dell’America e
dei suoi alleati, arabi e occidentali, qui e in Siria, controbilancio con un successo contro il sedicente Stato Islamico di Al Baghdadi l’avanzata di Mosca tra il Mediterraneo e la Mesopotamia. È un regolamento di conti non solo con il Califfato ma anche con quella storia cominciata con la spartizione anglo-francese di Sykes-Picot nel 1916, come dimostrano le accese rivalità tra il governo di Baghdad e i turchi, le tensioni tra le milizie sciite e i curdi e la partecipazione interessata delle forze armate americane e occidentali.
In questa pianura brulla, quasi desolata, tra Mosul e Ninive, si sono date appuntamento le ambizioni di potenze globali e regionali, dalla Turchia all’Iran, qui convergono timori e speranze di interi popoli e di minoranze represse. Ognuno rivendica qualche cosa: sfere di influenza, basi militari, territori, petrolio, pipeline, città, villaggi, vestigia storiche e religiose dense di simboli e di memorie contrastanti, eredità contese che hanno cambiato padroni e abitanti dozzine di volte. Sono questi i pezzi di un mondo ex, di imperi travolti e nazioni disgregate, finito con i suoi frammenti nella polvere della battaglia di Mosul.