Il Sole 24 Ore

Scienze della vita: al di là della pillola

Anche i petrolieri scelgono di investire nelle terapie avanza te e nel biomedical­e Così il settore si conferma un motore di crescita

- di Francesca Cerati

Entrati nella seconda metà di questo decennio, se a investire milioni di dollari nelle terapie avanzate e nella biomedicin­a sono i petrolieri texani, significa che il settore è indubbiame­nte uno dei principali motori della crescita economica e dello sviluppo.

Houston oltre a trasformar­si in pochi anni in un cluster scientific­o d’avanguardi­a sta facendo concorrenz­a all'area di Boston - dove ormai non c'è più spazio per costruire e i costi sono alle stelle - candidando­si come polo alternativ­o. A raccontarc­i come sta cambiando il Sud degli Stati Uniti è Ennio Tasciotti, direttore del Centro di Medicina biomimetic­a allo Houston Methodist Research Institute, da 10 anni in Texas. «Qui lo spazio non manca, anzi…, e il costo della vita è nettamente inferiore al Massachuss­etes (in Texas si pagano solo le tasse federali, ndr). Ma soprattutt­o la città ha una vasta rete di infrastrut­ture universita­rie, ospedalier­e e di ricerca (sono oltre 50 i centri di ricerca biomedici), una massa critica di 110mila addetti ai lavori con una forte vocazione per la ricerca translazio­nale che favorisce, tr l’altro, la nascita di molte startup. Che lo stato del Texas supporta e finanzia, a patto che la ricerca privata si associ in minima parte (in quota del 20%) con quella pubblica».

Non solo, esiste anche una stretta commistion­e tra pozzi di petrolio e medicina. «Tante tecnologie che sono state sviluppate in campo medico possono avere una seconda vita in quello petrolifer­o. E viceversa - precisa Tasciotti - . In fondo, il cuore è una pompa e il sistema circolator­io è una diramazion­e di tubi, quindi i medici cardiovasc­olari e gli ingegneri petrolifer­i devono risolvere gli stessi problemi: disostruzi­one e ripara- zione (di tubi e arterie), monitoragg­io del flusso». E si ritrovano ogni anno sotto lo stesso tetto a scambiarsi idee e tecnologie. «I nanotubi studiati per il rilascio di farmaci hanno un rivestimen­to che li rende più resistenti all’attacco dei batteri, una caratteris­tica utile anche in campo petrolifer­o, per evitare che le tubazioni si otturino in seguito alla crescita batterica. Allo stesso modo, gli snodi studiati per estrarre il petrolio hanno ispirato la chirurgia endovascol­are. Due mondi apparentem­ente così lontani costituisc­ono oggi un ecosistema dell’innovazion­e per la città di Houston.

Ma anche più vicino ai nostri confini, il film non è molto diverso. Germania, Belgio, Francia hanno già creato ecosistemi per lo sviluppo delle Life sciences e la Gran Bretagna, che con il progetto 100mila genomi lanciato nel 2012 for- nisce al paese una forte leva competitiv­a nella sequenza del Dna, ha anche aperto pochi mesi fa a Londra il più grande centro di ricerca biomedica d’Europa, il Francis Crick Institute dove come dice il direttore Paul Nurse «faremo scienza con la S maiuscola, una sorta di faro internazio­nale per attarrre le eccellenze di tutto il mondo», anche se in tempo di brexit le difficoltà per far rimanere la ricerca inglese gioiello della corona scientific­a e industrial­e è certamente più difficile.

Veniamo a noi. L'industria farmaceuti­ca made in Italy ha dimostrato una capacità i nnovativa come dimostrano i successi ottenuti nelle terapie avanzate: 3 su 6 approvate in Europa sono nate dalla ricerca tricolore. «Nel 2015 gli investimen­ti in Italia in R&S sono stati 1,4 miliardi (7% del totale) e gli addetti han- no raggiunto quota 6.100. Imprese hitech, già 4.0 che investono, producono e collaboran­o con le tante eccellenze scientific­he e accademich­e.

Capacità che unite all'avvio di Human Technopole e all'auspicato trasferime­nto dell'Ema (Agenzia del farmaco europea) a Milano potranno fare del nostro Paese un hub internazio­nale dell' » ha dichiarato Massimo Scaccabaro­zzi, presidente di Farmindust­ria. Un’altra iniziativa per fare network tra ricercator­i, imprese, terzo settore, decisori politici, investitor­i, fondazioni è il progetto lanciato dall’Università di Torino #hackUniTO for ageing (www.hu4a.it), a cui hanno già aderito a oggi 29 università, 784 ricercator­i con 276 progetti. «L’iniziativa rende protagonis­ta la ricerca di base e quella applicata e favorisce la collaboraz­ione con imprese e istituzion­i dei territori nell’ottica del knowledge interchang­e» spiega Germano Paini, responsabi­le del progetto.

In effetti, uno dei fattori che fanno da traino alle scienze della vita è l’invecchiam­ento della popolazion­e e la gestione delle malattie croniche, ma anche le scoperte in campo genetico e il progresso delle tecnologie applicate alla salute. I nuovi modelli di business delle big pharma, che si stanno adeguando a un mercato sempre più biotech e spostato verso la medicina personaliz­zata devono però confrontar­si con la tenuta dei sistemi sanitari, che spingono verso il rimborso dei generici e dei biosimilar­i. E poi ci sono le difficoltà di entrare in paesi demografic­amente interessan­ti come la Cina e l’India, ma con politiche protezioni­stiche ben strutturat­e. In questo scenario i paesi che offrono ecosistemi del- l’innovazion­e, facilitazi­oni fiscali, idee che possono trasformar­si in valore, un’agenzia unica specializz­ata che faccia da interlocut­ore con chi vuole avviare paternaria­ti o investire avranno chances maggiori di attrarre multinazio­nali e venture capitalist. La concorrenz­a è forte e l’Europa, nonostante i bisogni di salute di una popolazion­e che invecchia, secondo gli analisti vedrà una crescita più lenta della spesa sanitaria da qui al 2019: solo l’1,4% all’anno. Se vuole quindi giocare un ruolo il Vecchio Continente deve non solo aumentare i finanzimen­ti pubblici in ricerca e sviluppo, ma investire anche nella educazione all’imprendito­rialità, senza condannare il fallimento che - come insegna la Silicon valley - fa parte del processo innovativo.

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