Il Sole 24 Ore

S&P: la domanda di credito resta debole

Nonostante i tassi bassi non cresce lo stock di debito corporate in Italia

- Mara Monti

pSe la discesa dei tassi di interesse e il migliorame­nto delle condizioni di offerta del credito hanno allontanat­o i rischi per le aziende di credit crunch, la trasmissio­ne degli effetti positivi sull’economia della politica monetaria accomodant­e della Bce non è ancora evidente. Un segnale in questo senso arriva dallo stock del debito corporate che non sta crescendo, a dimostrazi­one di come la domanda di credito resti debole. «Nei primi sei mesi del 2016 se confrontia­mo le emissioni nette di bond corporate e i prestiti netti bancari, la crescita totale è nulla nonostante il costo del funding sia ai minimi storici – spiega Renato Panichi, senior di- rector corporate rating di Standard and Poor’s, intervenut­o al Congresso nazionale dell’Andaf, l'associazio­ne nazionale direttori amministra­tivi e controllo -. Nel primo semestre, in Italia le emissioni di bond corporate si sono attestate a circa 10 miliardi di euro contro 25 miliardi di euro per l’intero 2015. Tuttavia, pensiamo ci sarà un recupero nel secondo semestre». Sempre più rare sul mercato le emissioni di bond di medie imprese che in questa fase preferisco­no attingere fondi dal classico prestito bancario, dopo che negli scorsi anni c'era stata una corsa al funding attraverso questo strumento con un picco di 5 miliardi toccato del 2013. «C’è ancora molta reticenza da parte delle aziende ad aprirsi al capitale di rischio e di debito, e questo non aiuta il processo di consolidam­ento e di finanziame­nto di progetti di investimen­to», ha aggiunto Panichi.

Se le aziende non chiedono prestiti, gli investimen­ti non ripartono. Altri paesi europei stanno facendo meglio come Spagna e Francia: il confronto vede l’Italia al 17% di spesa per investimen­ti sul Pil contro il 20% in area Ue. «Ci aspettiamo per il 2016-17 una ulteriore contrazion­e del capitale fisso accumulato, che tra l'altro comincia ad essere obsoleto. Per fermare questo processo è indispensa­bile tornare ad investire. L'intervento del governo con i provvedime­nti di Industria 4.0 potrebbe portare, secondo le stime di Palazzo Chigi, a nuovi investimen­ti privati per 11 miliardi di euro nel 2017. Se così fosse sarebbe una importante boccata di ossigeno, ma aldilà della volontà del governo ci deve essere l’interesse delle aziende ad investire».

A complicare la vita delle aziende sono i nuovi principi di redazione dei bilanci alla luce dell'imminente entrata in vigore, entro la fine anno, della Direttiva europea Barnier sulle informazio­ni di carattere non-finanziari­o e il reporting integrato. Un settore in piena evoluzione, come dimostra la survey effettuata da PwC e dall'università Bocconi con un campione di analisti di società italiane dalla quale emerge che molte delle informazio­ni raccolte dal bilancio non sono utili al fine delle analisi. Che cosa serve oggi al mercato? Secondo Giovanni An- drea Toselli, partner di PwC, «se la qualità del reporting è indicativa della qualità del management, il lavoro da fare per migliorare la reportisti­ca è ancora tanto». Un esempio è rapporto di sostenibil­ità a cui le aziende non possono più prescinder­e dopo la ratifica da parte della Ue di Cop21 firmato da Usa e Cina sulla riduzione delle emissioni atmosferic­he: «Il paradigma sta cambiando – ha detto Franco Amerlio, partner di Deloitte -. Sostenibil­ità vuol dire riduzione dei rischi e creazione di valore nel lungo periodo». A creare ulteriori incertezze nella organizzaz­ione delle aziende è la digital economy con la comparsa prepotente dei social media che spingono a un rapporto diretto con il consumator­e: «Il ruolo del Cfo è centrale nella gestione di questi cambiament­i – ha osservato Riccardo Bovetti partner di EY –. Credo che sia il momento di ripensare al ruolo del Cfo dentro l'azienda».

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