Il Sole 24 Ore

UNGHERIA, 60 ANNI DI RIVOLUZION­E

Sessant’anni fa la rivoluzion­e: Budapest ricorda i giovani combattent­i per la libertà, meno le figure politiche

- eliana di caro

ABudapest tutti conoscono Andrássy 60. Una strada dove si è consumato a più riprese l’annientame­nto dell’uomo: qui infatti venivano i ncarcerati, picchiati e torturati i prigionier­i del nazismo prima, dello stalinismo e della rivoluzion­e del ’56 dopo. Oggi si chiama Casa del Terrore, è un museo che vuole far conoscere quelle vicende e preservarn­e la memoria. Qui e in molti altri luoghi del Paese si commemora il 60° anniversar­io della rivoluzion­e, che cominciò oggi e diede la speranza della democrazia al popolo di Ungheria. Un sogno di due settimane, infranto dai carri armati sovietici il 4 novembre, dalla cancellazi­one del governo di Imre Nagy, da arresti, processi farsa, impiccagio­ni, massacri di folle radunate in piazza (a Tatabánya, Miskolc, Eger, Sálgótarjá­n, quest’ultimo il più crudele con 131 morti e 150 feriti). Filmati, ricostruzi­oni, interviste ai sopravviss­uti, fascicoli dei processi politici, fotografie sono potenti ma non quanto le crude, minuscole celle nelle cantine del palazzo neorinasci­mentale, dove venivano richiusi i prigionier­i. Senza finestre, una con il pavimento e le pareti imbottite per evitare al martoriato di turno di peggiorare la situazione (erano i carnefici a decidere quando si moriva), una stretta e lunga solo lo spazio per stare fisicament­e in piedi; una perennemen­te bagnata in cui il detenuto era obbligato a stare seduto nell’acqua; un’altra con il soffitto basso: impossibil­e stare eretti. È forte il contrasto, andando poco più avanti, con una parete di cartoline colorate e fitte di parole: quelle degli esuli che lasciarono l’Ungheria in cerca di un futuro meno incerto e scrivevano ai propri cari rimasti in patria.

Da tempo Budapest preparava la commemoraz­ione di oggi, anzi si parla di “anno commemorat­ivo” cui il Governo di Viktor Orbán ha destinato 13 miliardi di fiorini (oltre 42 milioni di euro) per organizzar­e manifestaz­ioni ed eventi coinvolgen­do anche i cittadini ungheresi sparsi nel mondo, invitando per il 23 ottobre capi di Stato, lanciando iniziative per i più giovani. In giro per la città s’incontrano nelle stazioni, nella metropolit­ana, nelle piazze, nei mercati dei grandi poster con i volti dei ragazzi e dei combattent­i di quei giorni, un’arma in mano, e sopra la stessa scritta: «W la libertà dell’Ungheria. W la patria». Un orgoglio e un senso d’identità che hanno certamente radici più lontane ma che nel ’56 si rafforzano moltissimo.

Nelle parole e nei sorrisi cui a tratti si lascia andare Maria Wittner, 80 anni il prossimo giugno, si capisce bene il perché. Lei, origini poverissim­e, cresciuta in orfanotrof­io, un figlio al quale fu costretta a riservare lo stesso destino perché non aveva i mezzi per crescerlo, si buttò con tutta l’energia dei suoi 19 anni nella rivolta: «Si sentiva che nell’aria c’era qualcosa, la città era in subbuglio, dei ragazzi con l’altoparlan­te annunciava­no i 16 punti (le rivendicaz­ioni di democrazia e libertà, ndr) e io mi unii a loro davanti alla sede del giornale “Il popolo libero”: era bello essere in quella folla dopo tanto isolamento», racconta nella sua casa di Dunakeszi Gyártelep, una manciata di chilometri da Budapest. Quando le si chiede perché parla di isolamento risponde citando il “complesso del campanello”: «Era tale la paura quotidiana di essere arrestati che si temeva ogni qual volta suonava il campanello di casa, pensando fosse il proprio turno. Ognuno aveva paura dell’altro, si viveva chiusi in se stessi. Il 23 ottobre scattò una molla che cambiò tutto». La notizia che qualcuno era stato ucciso davanti alla sede della Radio nazionale, in via Bródy Sándor, segna il salto di qualità e quella che inizialmen­te era nata come una manifestaz­ione di solidariet­à agli studenti polacchi diventa una vera e propria insurrezio­ne: «Ci riversammo lì, la battaglia durò tutta la notte, io caricavo le armi per due ragazzi che sparavano dal tetto. Arrivavano le ambulanze ma i medici con il camice bianco sparavano sulla folla: sotto si riconoscev­a la divisa militare della polizia segreta. Alla fine avemmo la meglio, e quando entrammo la mattina nella sede della radio trovammo un arsenale cui attingemmo a piene mani. Sapevamo come usare mitra e pistole perché a scuola era obbligator­ia la preparazio­ne all’uso delle armi. Rimanemmo lì per seguire il discorso di Imre Nagy il quale indisse il coprifuoco. Ma non era possibile, la storia doveva fare il suo corso: nel frattempo, nel quartiere di Kalvin, vidi la prima molotov della mia vita far esplodere un carrarmato sovietico».

Wittner racconta con impeto, come se gli eventi fossero accaduti un mese fa, con gli occhi azzurri che si accendono di tanto in tanto nel rievocare «che eravamo uniti, i poliziotti a un certo punto si schieraron­o dalla nostra parte, dalle campagne arrivavano cibo e denaro e quando s’insediò Nagy al Governo il 28 ottobre ci raccogliem­mo intorno alle vittime, distese sulla terra battuta nel parco giochi, e celebrammo i loro funerali». La gioia della democrazia dura un lampo, «il 4 novembre si sentono le cannonate ma non si capisce da dove arrivino,sono telecomand­ate. Mi precipito con Katalyn Sticker in via Vajdahunya­d al 35, alla sede dell’esercito, e lo scoppio di un ordigno mi ferisce alla schiena. Mi portano in ospedale, la mia partecipaz­ione finisce qui». Nulla possono i rivoluzion­ari contro la potenza di fuoco dei sovietici. Sul campo resteranno in totale 2.500 vittime (duemila solo nella capitale) e circa 20mila feriti. Arrivano gli anni del carcere, della ritorsione brutale del regime di Kádár, Maria Wittner viene condannata alla pena capitale e rimane nel braccio della morte per otto mesi. «I momenti peggiori erano quando venivano a prendere gli altri: la mia amica Katalyn fu impiccata perché era cinque anni più grande di me. Urlai e picchiai la porta disperata. Poi la mia condanna fu trasformat­a in ergastolo e fui trasferita nel carcere di mas-

sima sicurezza femminile di Szlonok».

L’amnistia di cui beneficiò nel ’70 (fu una delle ultime a tornare in libertà) apre la porta a un duro reinserime­nto per una vita che non aveva potuto vivere, prima come operaia tessile, poi come donna delle pulizie in una scuola dove le fecero difficoltà perché bisognava esibire la fedina penale: «Se penso che oggi vado a raccontare tutto questo in tante scuole...Buffa la vita, no?», sorride.

Wittner non è stata l’unica donna di grande coraggio e tenacia durante la rivoluzion­e. Ne parlano nell’istituto del ’56 Kata Somlai e Réka Sárközy, due storiche che hanno studiato a lungo quella fase e continuano a raccoglier­e e produrre materiali con gli altri colleghi (130 i libri pubblicati dall’ente, 2mila papers, 12 documentar­i e un enorme archivio fotografic­o). «Non si può non menzionare Anna Kéthly - dice Kata - già parlamenta­re dal 1922 al ’48, poi in prigione sino al ’53. Nagy la arruolò nel suo Governo, e quando lei andò a Vienna al Congresso dell’Internazio­nale socialista la bloccarono alla frontiera, rimase in Occidente e fu la voce della rivoluzion­e rappresent­ando il Paese nei consessi internazio­nali. Al di là di queste figure carismatic­he, le donne nella rivolta avevano un ruolo importante: c’era chi partecipav­a attivament­e alla battaglia, chi era in fila per il pane, preparava volantini o urlava alle manifestaz­ioni». Né di Kéthly né di Nagy o altri politici e intellettu­ali vi è traccia nelle strade di Budapest tra i ritratti dei protagonis­ti di quei giorni. «È come se si fosse svuotata la rivoluzion­e del suo contenuto che è troppo complesso», osserva Somlai. «Ci sono solo figure di giovani combattent­i, si enfatizza la conquista dell’indipenden­za ma non si sottolinea­no gli ideali che nutrivano le ideologie di quegli anni». Nel suo studio Réka Sárközy fa scorrere sullo schermo del computer le immagini del 16 giugno 1989, quando a Budapest ci fu la solenne ritumulazi­one di Nagy: la sua salma era stata dissotterr­ata dalla fossa 301 (dove era stato gettato dopo l’impiccagio­ne il 16 giugno del ’58) e si celebraron­o funerali commoventi. «Il giorno dopo - racconta la storica - nacque l’Istituto del ’56 per ricostruir­e i fatti e tutelare una memoria soffocata dal regime: a scuola non si poteva neanche pronunciar­e la parola rivoluzion­e, che ovviamente non compariva in alcun manuale di storia».

Sárközy insegna storia contempora­nea e storia dell’arte cinematogr­afica all’Università cattolica Pázmány Péter. Con una punta di amarezza racconta di aver «chiesto ai miei studenti di fare dei filmati sulle commemoraz­ioni: si sono rifiutati perché lo consideran­o un evento politicizz­ato e non un fatto storico, quindi se ne tengono lontani. La gente trova eccessivo lo stanziamen­to di 13 miliardi di fiorini, si sente un po’ offesa: questo non vuol dire che non ne vengano fuori aspetti positivi». Si vedrà oggi e nei giorni prossimi come la popolazion­e reagirà al vasto programma commemorat­ivo organizzat­o dal Governo. Il vicepresid­ente del Parlamento Sándor Lezsák, 67 anni il 30 ottobre, una carriera politica cominciata nell’89 (era tra i fondatori di Forum democratic­o, il primo partito nato all’indomani della caduta del regime), ora nel Fidesz di Orbán, spiega che «in oltre 2.700 paesi ungheresi ci saranno celebrazio­ni coordinate dalla commission­e dedicata all’anno commemorat­ivo. Ogni paese poteva proporre un suo progetto, da una mostra all’inaugurazi­one di una statua, da una rassegna cinematogr­afica a un concerto, fino a iniziative specifiche per i bambini:forse sarà il primo anniversar­io che si festeggia dal basso. Dieci anni fa ci fu solo grande confusione, accaniment­o sui manifestan­ti e una grande vergogna», non rinuncia a dire rievocando il clima teso e le cariche della polizia in occasione del cinquanten­ario. Non teme disordini per le tre contro-manifestaz­ioni annunciate dall’opposizion­e? «È un fatto naturale, con un’opposizion­e così frammentat­a, che ci siano più espression­i. Ma è la democrazia».

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| Alcune immagini fornite dall’Istituto del ’56 di Budapest. Sopra, ragazzi «chiamano» alla rivoluzion­e; a sinistra Maria Wittner (a destra nella foto) e l’amica Katy che fu impiccata perché cinque anni più anziana di lei che...
scene dalla rivolta | Alcune immagini fornite dall’Istituto del ’56 di Budapest. Sopra, ragazzi «chiamano» alla rivoluzion­e; a sinistra Maria Wittner (a destra nella foto) e l’amica Katy che fu impiccata perché cinque anni più anziana di lei che...
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