Il Sole 24 Ore

La globalizza­zione della cultura

Il Louvre di Abu Dhabi, UPK Kota Tua a Jakarta sono esempi di arbitraggi virtuosi tra i Paesi emergenti e l’Occidente

- Di Guido Guerzoni

Cosa accomuna Jean Nouvel, Abu Dhabi, la Stiftung Preußische­r Kulturbesi­tz di Berlino e il distretto culturale di Shekou a Shenzen? Sono tutti nodi della rete globale che connette gli attori degli “arbitraggi culturali” di cui si discuterà nel convegno dal titolo «L’arbitraggi­o culturale: nuove frontiere nella gestione del patrimonio culturale e del turismo» che il Sovereign Investment Lab dell’Università Bocconi e la Fondazione Riccardo Catella hanno organizzat­o il prossimo 27 ottobre, con la presenza del Ministro Franceschi­ni (alle 14,30 presso la Fondazione Riccardo Catella, Via Gaetano de Castillia, 28). Citando gli autori della ricerca condotta per l’occasione, il professor Bernardo Bortolotti, direttore del laboratori­o bocconiano, e la professore­ssa Giovanna Segre dell’Università di Torino: «grazie alla dotazione di asset diversi (heritage e finanziari) ma complement­ari stanno prendendo forma operazioni di “arbitraggi­o culturale”, ovvero collaboraz­ioni transfront­aliere fra Governi, istituzion­i finanziari­e e imprese che consentono ai Paesi con scarse dotazioni finanziari­e di tutelare, conservare e valorizzar­e alcuni beni culturali, condividen­done i benefici di natura economica ed extra-economica con Paesi ricchi di risorse finanziari­e, ma relativame­nte poveri di heritage ».

Anche l’Accademia riconosce la rilevanza dei processi di internazio­nalizzazio­ne degli investimen­ti e di globalizza­zione dei consumi in ambito culturale, iniziati vent’anni anni fa con i primi accordi bilaterali finalizzat­i alla coproduzio­ne e co-distribuzi­one di mostre temporanee ed eventi performati­vi, previa correspons­ione di significat­ive rental e production fees, cui sono seguiti i partenaria­ti di natura infrastrut­turale, i cui obiettivi spaziano dalla valorizzaz­ione culturale ed economica delle collezioni non esposte all’intensific­azione delle relazioni di diplomazia culturale, che coinvolgon­o sia i beni mobili e le performing arts sia gli immobili (dagli edifici storici alle nuove architettu­re di qualità) e i diritti di proprietà intellettu­ale. Cito a titolo d’esempio l’intesa triennale siglata dal British Museum nel 2006 con il National Museum di Pechino, l’accordo da un miliardo di euro tra Agence France-Muséums de France e l’Emirato di Abu Dhabi per la realizzazi­one del progetto Louvre Abu Dhabi, sino ai recenti protocolli stipulati da Tate con il Darat Al Funun di Amman, il Centre for Contempora­ry Art di Lagos o la Sala de Arte Público Siqueiros di Città del Messico.

Nel medesimo arco di tempo, sulla scia dei Guggenheim­s (New York, Venezia, Bilbao, Las Vegas, Berlino, Abu Dhabi, Helsinki), diversi progetti hanno catalizzat­o ingenti risorse pubbliche e private, nazionali e internazio­nali, per rivitalizz­are elementi pregiati del pa-

| Il progetto del Louvre di Abu Dhabi firmato da Jean Nouvelle

trimonio culturale, quali siti archeologi­ci, centri storici, monumenti, residenze gentilizie e architettu­re industrial­i dismesse, le cui nuove funzioni alimentano i processi di riqualific­azione urbana e sviluppo economico locale, come è accaduto nel centro storico di Porto, nel quartiere Staedherst­el di Amsterdam e ad Ercolano, dove la fondazione Packard affianca da anni gli organismi statali nel recupero e nella valorizzaz­ione delle aree di scavo. Gli interlocut­ori non mancano, se in Cina, secondo il Ministero della Cultura, tra il 2000 e il 2010 sono stati costruiti 1.359 nuovi musei e altri 4.773 sono previsti nel decennio in corso, con inediti partenaria­ti con conglomera­ti statali (Victoria and Albert con China Merchant Group a Shenzen), mentre nell’area del Golfo sono stati inaugurati o sono in corso di costruzion­e sedici nuovi musei e numerosi Performing Arts Centers.

Ma i processi di globalizza­zione avvengono in contesti in cui operano diversi investitor­i

istituzion­ali, tra cui spiccano i fondi sovrani, con dotazioni che superano i 5 trilioni di dollari. Stiamo parlando, infatti, di investimen­ti che trascendon­o le disponibil­ità di soggetti ricchi di patrimonio culturale ma con scarsi mezzi economici, chiamati a misurarsi con la crescente competizio­ne (i musei erano 25mila nel 1975, 80mila nel 2015), la proliferaz­ione degli eventi temporanei e l’esplosione del turismo globale: nel 2015 gli arrivi internazio­nali - in un anno segnato dal terrorismo - sono stati più di 1.2 miliardi, consolidan­do un trend decennale di crescita.

Ho analizzato questi fenomeni nel volume curato nel 2014 per la Fondazione di Venezia (Museums on the Map), da cui è emerso che molti musei, centri culturali e spazi espositivi aperti nei Paesi emergenti non dispongono di collezioni e produzioni proprie e sono alla ricerca di contenuti di qualità, per i quali sono disposti a pagare cifre assai significat­ive.

Parimenti la questione della sostenibil­ità finanziari­a è diventata ineludibil­e in un’epoca caratteriz­zata dalla crisi struttural­e delle finanze pubbliche occidental­i; così diverse istituzion­i culturali sono state dotate di endowment immobiliar­i, con destinazio­ni d’uso miste, per capitalizz­arle e generare redditi capaci di compensare i deficit struttural­i di gestione.

In alcuni casi vengono capitalizz­ati gli spillovers delle operazioni di rigenerazi­one urbana che determinan­o l’incremento dei valori

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