Sá ndor Kopácsi e la voglia di libertà
tiro dei sovietici dal territorio, e poi travolto dal loro ritorno. In mezzo i «dieci giorni di Budapest» tra conflitti, prima scontri e confronti con la popolazione, liberazione di prigionieri, manifestazioni di strada, le molte scene di chi pensa di «essere finalmente libero», sperimenta la propria voglia di autogovernarsi, di partecipare alla cosa pubblica per poi trovarsi completamente espropriato, imprigionato. Insieme le molte scene di solidarietà, ma anche di rispetto o di trattativa dove ogni volta in questione c’è la vita degli uomini del potere di prima, e la rabbia degli insorti, ma anche spesso la loro disponibilità a trattare con la sensazione che il domani sia una pagina bianca da scrivere.
In questa veste Sándor Kopácsi, questore di Budapest prima della rivolta e poi uomo di punta della sicurezza per conto di Nagy nei giorni della rivolta e del governo provvisorio racconta una vicenda dall’interno, che ha la freschezza della storia in diretta, del senso di smarrimento, ma anche della sensazione che “si può fare”, che forse, pur con molte incertezze, prendere la propria sorte in mano e provare a cambiare qualcosa è alla portata di ciascuno e che importante è metterci la forza, le competenze, ma anche la sensibilità di non considerare gli insorti come “nemici” ma come tuoi concittadini che provano a scommettere sul futuro. La conclusione è l’invasione: il 4 novembre l’esercito del “Patto di Varsavia” ritorna in Ungheria. Finirà male e durerà ancora 33 anni. In mezzo, come racconta Kopácsi (p. 307 e sgg.) interrogatori, carcere, morte, tortura, secondo quel copione che Victor Serge ha raccontato splendidamente nel suo Caso Tulaev (Fazi). Nel 1989 il crollo.
Il resto è storia di oggi. Ma lì, in quella speranza recisa e poi violentemente strappata, sta forse la coda lunga della realtà dell’Ungheria di oggi, non disponibile a condividere con altri il peso della nuova crisi umanitaria che batte alle sue porte. Forse lì, in quei morti di sessanta anni fa, abbandonati da tutti, soli, sta un tratto di quel rancore che attraversa le strade del Paese.
Sándor Kopácsi, Abbiamo quaranta fucili, compagno colonnello, Postfazione di Aldo Natoli, trad. dall’ungherese di Angela Trezza , e/o, Roma, pagg. 432, € 18