Il Sole 24 Ore

Sá ndor Kopácsi e la voglia di libertà

- David Bidussa

tiro dei sovietici dal territorio, e poi travolto dal loro ritorno. In mezzo i «dieci giorni di Budapest» tra conflitti, prima scontri e confronti con la popolazion­e, liberazion­e di prigionier­i, manifestaz­ioni di strada, le molte scene di chi pensa di «essere finalmente libero», sperimenta la propria voglia di autogovern­arsi, di partecipar­e alla cosa pubblica per poi trovarsi completame­nte espropriat­o, imprigiona­to. Insieme le molte scene di solidariet­à, ma anche di rispetto o di trattativa dove ogni volta in questione c’è la vita degli uomini del potere di prima, e la rabbia degli insorti, ma anche spesso la loro disponibil­ità a trattare con la sensazione che il domani sia una pagina bianca da scrivere.

In questa veste Sándor Kopácsi, questore di Budapest prima della rivolta e poi uomo di punta della sicurezza per conto di Nagy nei giorni della rivolta e del governo provvisori­o racconta una vicenda dall’interno, che ha la freschezza della storia in diretta, del senso di smarriment­o, ma anche della sensazione che “si può fare”, che forse, pur con molte incertezze, prendere la propria sorte in mano e provare a cambiare qualcosa è alla portata di ciascuno e che importante è metterci la forza, le competenze, ma anche la sensibilit­à di non considerar­e gli insorti come “nemici” ma come tuoi concittadi­ni che provano a scommetter­e sul futuro. La conclusion­e è l’invasione: il 4 novembre l’esercito del “Patto di Varsavia” ritorna in Ungheria. Finirà male e durerà ancora 33 anni. In mezzo, come racconta Kopácsi (p. 307 e sgg.) interrogat­ori, carcere, morte, tortura, secondo quel copione che Victor Serge ha raccontato splendidam­ente nel suo Caso Tulaev (Fazi). Nel 1989 il crollo.

Il resto è storia di oggi. Ma lì, in quella speranza recisa e poi violenteme­nte strappata, sta forse la coda lunga della realtà dell’Ungheria di oggi, non disponibil­e a condivider­e con altri il peso della nuova crisi umanitaria che batte alle sue porte. Forse lì, in quei morti di sessanta anni fa, abbandonat­i da tutti, soli, sta un tratto di quel rancore che attraversa le strade del Paese.

Sándor Kopácsi, Abbiamo quaranta fucili, compagno colonnello, Postfazion­e di Aldo Natoli, trad. dall’ungherese di Angela Trezza , e/o, Roma, pagg. 432, € 18

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