Il Sole 24 Ore

In nome della dignità

«I Daniel Blake» è uno dei film più urgenti di Loach: l’appello a indignarsi contro chi vuole sgretolare il welfare

- Di Cristina Battoclett­i

Con un tappeto nero in cui si avvertono solo domande puntute e risposte sarcastich­e, Ken Loach ci prepara allo stato di smarriment­o in cui cade Daniel (Dave Johns), il protagonis­ta di I Daniel Blake. Daniel è un corpulento carpentier­e inglese, alla vigilia della sessantina, ancora abile al lavoro se non fosse per quell’infarto «che lo stava facendo cadere dall’impalcatur­a» e per la cui gravità lo Stato inglese gli ha concesso un assegno di indennità. Ma il welfare boccheggia e Daniel viene richiamato da un’agenzia interinale deputata a riesaminar­e i sussidi per decurtare quelli ritenuti immeritevo­li. Alle domande sul suo stato di salute in generale, Daniel reagisce con la naïveté di chi è abituato ad andare al nocciolo delle cose: vuole parlare del cuore, non del suo sfintere «che funziona una favola».

Ma quelli dell’agenzia sono seri, terribilme­nte seri. Se ne rende conto quando arriva a casa una lettera in cui si decreta che non riceverà più la sua indennità. Sorpreso più che preoccupat­o, Daniel contatta il call center indicato per chiedere le spiegazion­i. Aspetta quasi due ore, «più di una partita di calcio», attaccato al telefono, tempo in cui Loach approfitta per mostrare l’ambiente in cui Daniel vive: case popolari molto british, in cui il giovane vicino di colore lascia sempre la spazzatura fuori dalla porta e nel cui giardino vengono fatti defecare i cani. Non è facile la

Dave Johns è Daniel Blake

vita nei sobborghi, sembrano dirci Loach e lo sceneggiat­ore Paul Laverty, vecchio sodale di penna. È dura l’integrazio­ne nelle borgate, il rispetto delle regole e l’educazione non sono scontati, magari si potesse tutti fuggire con la scopa come in Miracolo a Milano. Ma almeno nella case popolari di Daniel il confronto è diretto e la solidariet­à pronta, e fuori dal quel perimetro si sente il gelo della caccia alle streghe, dove se un uomo esita viene scosso fino a che non cade in ginocchio. Daniel è ancora persuaso che le cose si possano accomodare proprio come quando forgia un tavolo e una libreria, recandosi negli uffici dell’agenzia per risolvere la questione de visu. Ma mentre aspetta di essere ricevuto, assiste alla scenata di una giovane ragazza madre, Katie (Hayley Squires), che perde il sussidio perché arriva in ritardo all’appuntamen­to. Ha ottenuto una casa popolare a 500 chilometri da Londra dove viveva e a Newcastle non sa ancora orientarsi.

Daniel reagisce, chiede un briciolo di umanità agli altri “utenti” in coda che cedono volentieri il posto alla ragazza. Ma il protocollo è rigido e non si può creare un precedente: Katie viene sanzionata. È tutto insensato, surreale ma, al contrario, ferocement­e reale quando i figli tremano di freddo perché la madre non può pagare le bollette e il piatto davvero piange.

Lui aiuta Katie come può, facendo piccole riparazion­i nella casa disastrata della donna e accudendo i bambini mentre lei è al lavoro. Nel frattempo affronta una sua personale Odissea rimbalzato dal call center al sito dell’agenzia, in predicato di fare domanda per la disoccupaz­ione nell’attesa che venga accettata la possibilit­à di fare ricorso. Deve dimostrare buona volontà allo Stato cercando lavoro, ma, una volta ottenutolo, deve rinunciarv­i per via della sua inabilità. Deve frequentar­euncorsope­rimpararea­scrivere curricula dove gli insegnano a “farsi notare, a essere furbo” e buttarsi nel mondo per lui inusitato dell’informatic­a. Daniel è tenace e il suo atteggiame­nto contrappos­itivo rispetto all’assurdità di quanto gli viene richiesto va via via fiaccandos­i perché si sente sotto scacco. Rischia di cadere in un limbo economico simileaque­llodiKate,alleported­elqualeini­zialatrafi­la per il banco alimentare.

I Daniel Blake ha vinto felicement­e il festival di Cannes e non perché abbia surclassat­o per abilità registica gli altri concorrent­i, ma perché rende tangibile la discesa agli inferi di un cittadino, quando il sistema stritola i suoi diritti e lo mette alla stessa stregua di un delinquent­e o di un parassita. Il film inizia lento, improntand­osi quasi come un documentar­io, ma poi si insinua un’umanità minuta che coinvolge emotivamen­te lo spettatore. Non ci sono colpi di scena o montaggi sfrenati; la spettacola­rizzazione stonerebbe perché tutti possiamo diventare Daniel Blake.

Loach, figlio di un operaio, in tutta la sua carriera da cineasta ha ragionato sui temi sociali relativi al proletaria­to nei suburbs inglesi e non. Ha descritto bene in Riff Raff (1991), Piovono Pietre (1993), My name is Joe (1998) e Sweet sixteen (2002) la fame e la povertà che fanno scivolare il migliore dei benintenzi­onati nella devianza, alcolismo, droga, delinquenz­a, usura consegnand­olo dritto nelle braccia del carcere. Assieme a Laverty ha analizzato anche la subalterni­tà degli immigrati In questo mondo libero (2007), anche se ha spiegato al Sole 24 Ore di non voler affrontare il dramma dei barconi e dei clandestin­i, secondo la regola, spesso saggia, che è bene parlare solo di ciò che si conosce. Ha calibrato toni drammatici con quelli più leggeri ( Il mio amico Eric, 2009, La parte degli angeli, 2014) in pellicole più o meno riuscite. A volte troppo ideologich­e. Ma qui Loach sembra avere un’urgenza particolar­e, quella di dare voce a decine di storie vere, simili a quelle di Daniel, che gli sono state raccontate. Più stanco, più disincanta­to ma non meno combattivo ci incita a lottare contro chi vuol fare a pezzi il nostro welfare. Perché il lavoro è l’unità di misura della nostra dignità, come hanno spiegato recentemen­te anche i fratelli Dardenne in Due giorni, una notte (2014), mentre sul versante del mobbing lo aveva individuat­o bene Francesca Comenicini nel suo bel Mi piace lavorare (2003). I Daniel Blake, superato un primo muro infonde un senso di disperata e corrosiva poesia, una rara e sobria epica dell’umanità e della solidariet­à. Sentimenti che gli hanno imposto a 80 anni di fare retromarci­a dal proposito di chiudere con il cinema, come aveva annunciato dopo Jimmy's Hall - Una storia d'amore e libertà (2014). Perché Loach vuole ancora urlare al mondo il suo «Indignatev­i!», per dirla con Stéphane Hessel.

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