Viaggio negli inferi
Panorami diabolici nella capitale tra Ron Howard a Rebibbia, Mackenzie e Herzog. Il pubblico premia il fatuo «Captain Fa ntastic»
C’è un solo tipo di giuria il cui verdetto, quandanche misterioso, è difficilmente discutibile. Il premio del pubblico, l’unico previsto dalla snobistica eleganza della Festa di Roma incorona Captain Fantastic, racconto morale fatuo e noioso incentrato su un patriarca libertario che alleva sei figli nella foresta della Mosquito Coast nel rifiuto della società dei consumi, tra esercizi atletici e pagine di Chomsky: il regista Matt Ross dovrà ringraziare a lungo il fascino ambiguo di Viggo Mortensen.
En plein air o a porte chiuse la Festa di Roma insegue il modello performativo e eclatante del decentramento elitario ben lontano da quello delle prime edizioni. Dopo il vintage drive-in dell’Eur e il glamour appena fané di Piazza di Spagna lo schermo s’insinua tra le architetture radiali del penitenziario. Nell’auditorium di Rebibbia si proietta l’ultimo film di Ron Howard, Inferno: a fissare lo sguardo stupefatto su Tom Hanks e Felicity Jones sono i carcerati mentre a sbirciare i reclusi sistemati in un settore della platea sono gli invitati, perché, soprattutto qui, l’inferno sono gli altri. Il vero inferno è arrivato però solo con i serpenti di magma incandescente, dall’effetto ipnotico, scaturiti da una dozzina di vulcanici crateri inseguiti con antropologica ossessione dall’occhio insaziabile di Werner Herzog ( Into the Inferno), capace di evocarne i mistici retaggi e coglierne l’incanto visivo da tele iper-espressioniste. Infine un inferno si nasconde anche nelle anime dei protagonisti di Hell or High Water diretto da David Mackenzie e magnificamente scritto come westandthriller da Tayler Sheridan ( Sicario): nelle insonnolite piane del Texas due fratelli decidono di saldare un’ipoteca con denaro rubato nelle filiali della stessa banca che l’ha emessa in modo fraudolento. Per ironia, innovazione dei topos (Jeff Bridges detective sornione) e impennate di stile non siamo lontani dal cinema dei Coen.
Anche nella seconda settimana cinema americano e italiano sono stati magna pars della rassegna e il picco di appeal – elemento primario in una Festa - è stato fatto segnare da Meryl Streep, sentita interprete di Florence Fo- ster Jenkins firmato da Stephen Frears, dedicato alla riesumata memoria (è dello scorso anno Marguerite) della ricca newyorkese mecenate del bel canto, soprano senza talento, ipocritamente illusa da una nutrita cerchia di opportunisti. Laddove l’irruenza sarebbe stata d’obbligo – le eccentricità di Florence richiamano le stralunate vedove dei Marx – Frears è fin troppo pacato anche se abile nel far percepire allo spettatore l’esile crinale che divide il ridicolo dal sublime. Di uno spartiacque difficile da stabilire parla anche il documentario di Ferne Pearlstein The last laugh che pone la sconcertante domanda se sia legittimo ridere della Shoah. Il tema è appassionante e ovviamente hic et nunc irrisolvibile come dimostrano i divergenti pareri di registi, attori e persino di sopravvissuti, a meno di non prendere per buono il suggerimento caustico di uno degli intervistati secondo il quale una battuta sull’Olocausto è accettabile solo se riesce a farti vergognare di stare ridendo.
Di questi tempi non c’è troppo da meravigliarsi se le migliori immagini del cinema italiano vengono dal passato. In Napoli’44 Francesco Patierno, pur partendo dalla semplice illustrazione del testo di Norman Lewis riesce - con un amalgama di repertorio edito e inedito, di brani di pellicole comiche e drammatiche - a comporre un quadro della città partenopea che trasfigura quello letterario e sancisce così legittimità e originalità del film. È riuscita solo in parte la trasposizione cinematografica che Michele Placido propone di 7 minuti, complice Stefano Massini brillante autore del testo teatrale. Nel passaggio di codici la forza drammaturgica si assottiglia: il dilemma delle undici operaie poste davanti a una scelta che le travalica non possiede sullo schermo il pathos di phoné e idealità che aveva sul palcoscenico. Trattandosi di una manifestazione che ha scelto di rinunziare alla primogenitura a vantaggio di un allettante Festival of Festivals, il panorama sul cinema del resto del mondo è apparso, con qualche eccezione - dall’affresco storico di Wajda Afterimages, al sorprendente belgapakistano Noces di Stephan Streker - sbrigativo frutto di una pesca a strascico anziché a lenza. Nondimeno l’undicesima edizione ha confermato che tra la Festa e la città si va stabilendo un’inedita sintonia.