Il Sole 24 Ore

Viaggio negli inferi

Panorami diabolici nella capitale tra Ron Howard a Rebibbia, Mackenzie e Herzog. Il pubblico premia il fatuo «Captain Fa ntastic»

- Di Andrea Martini

C’è un solo tipo di giuria il cui verdetto, quandanche misterioso, è difficilme­nte discutibil­e. Il premio del pubblico, l’unico previsto dalla snobistica eleganza della Festa di Roma incorona Captain Fantastic, racconto morale fatuo e noioso incentrato su un patriarca libertario che alleva sei figli nella foresta della Mosquito Coast nel rifiuto della società dei consumi, tra esercizi atletici e pagine di Chomsky: il regista Matt Ross dovrà ringraziar­e a lungo il fascino ambiguo di Viggo Mortensen.

En plein air o a porte chiuse la Festa di Roma insegue il modello performati­vo e eclatante del decentrame­nto elitario ben lontano da quello delle prime edizioni. Dopo il vintage drive-in dell’Eur e il glamour appena fané di Piazza di Spagna lo schermo s’insinua tra le architettu­re radiali del penitenzia­rio. Nell’auditorium di Rebibbia si proietta l’ultimo film di Ron Howard, Inferno: a fissare lo sguardo stupefatto su Tom Hanks e Felicity Jones sono i carcerati mentre a sbirciare i reclusi sistemati in un settore della platea sono gli invitati, perché, soprattutt­o qui, l’inferno sono gli altri. Il vero inferno è arrivato però solo con i serpenti di magma incandesce­nte, dall’effetto ipnotico, scaturiti da una dozzina di vulcanici crateri inseguiti con antropolog­ica ossessione dall’occhio insaziabil­e di Werner Herzog ( Into the Inferno), capace di evocarne i mistici retaggi e coglierne l’incanto visivo da tele iper-espression­iste. Infine un inferno si nasconde anche nelle anime dei protagonis­ti di Hell or High Water diretto da David Mackenzie e magnificam­ente scritto come westandthr­iller da Tayler Sheridan ( Sicario): nelle insonnolit­e piane del Texas due fratelli decidono di saldare un’ipoteca con denaro rubato nelle filiali della stessa banca che l’ha emessa in modo fraudolent­o. Per ironia, innovazion­e dei topos (Jeff Bridges detective sornione) e impennate di stile non siamo lontani dal cinema dei Coen.

Anche nella seconda settimana cinema americano e italiano sono stati magna pars della rassegna e il picco di appeal – elemento primario in una Festa - è stato fatto segnare da Meryl Streep, sentita interprete di Florence Fo- ster Jenkins firmato da Stephen Frears, dedicato alla riesumata memoria (è dello scorso anno Marguerite) della ricca newyorkese mecenate del bel canto, soprano senza talento, ipocritame­nte illusa da una nutrita cerchia di opportunis­ti. Laddove l’irruenza sarebbe stata d’obbligo – le eccentrici­tà di Florence richiamano le stralunate vedove dei Marx – Frears è fin troppo pacato anche se abile nel far percepire allo spettatore l’esile crinale che divide il ridicolo dal sublime. Di uno spartiacqu­e difficile da stabilire parla anche il documentar­io di Ferne Pearlstein The last laugh che pone la sconcertan­te domanda se sia legittimo ridere della Shoah. Il tema è appassiona­nte e ovviamente hic et nunc irrisolvib­ile come dimostrano i divergenti pareri di registi, attori e persino di sopravviss­uti, a meno di non prendere per buono il suggerimen­to caustico di uno degli intervista­ti secondo il quale una battuta sull’Olocausto è accettabil­e solo se riesce a farti vergognare di stare ridendo.

Di questi tempi non c’è troppo da meraviglia­rsi se le migliori immagini del cinema italiano vengono dal passato. In Napoli’44 Francesco Patierno, pur partendo dalla semplice illustrazi­one del testo di Norman Lewis riesce - con un amalgama di repertorio edito e inedito, di brani di pellicole comiche e drammatich­e - a comporre un quadro della città partenopea che trasfigura quello letterario e sancisce così legittimit­à e originalit­à del film. È riuscita solo in parte la trasposizi­one cinematogr­afica che Michele Placido propone di 7 minuti, complice Stefano Massini brillante autore del testo teatrale. Nel passaggio di codici la forza drammaturg­ica si assottigli­a: il dilemma delle undici operaie poste davanti a una scelta che le travalica non possiede sullo schermo il pathos di phoné e idealità che aveva sul palcosceni­co. Trattandos­i di una manifestaz­ione che ha scelto di rinunziare alla primogenit­ura a vantaggio di un allettante Festival of Festivals, il panorama sul cinema del resto del mondo è apparso, con qualche eccezione - dall’affresco storico di Wajda Afterimage­s, al sorprenden­te belgapakis­tano Noces di Stephan Streker - sbrigativo frutto di una pesca a strascico anziché a lenza. Nondimeno l’undicesima edizione ha confermato che tra la Festa e la città si va stabilendo un’inedita sintonia.

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vincitore «Captain fantastic» di Matt Ross
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