Il Sole 24 Ore

Il biotech italiano è in buona salute

Non trovando fondi rilevanti nazionali , il vc estero non riesce a coinvestir­e

- di Guido Romeo

«Toglieteci i sassi dallo zaino». L'invocazion­e è di Alberto Mantovani, direttore scientific­o dell'Humanitas e uno dei 10 immunologi più citati del mondo, ma sembra calzante per tutto il settore biofarmace­utico italiano. Con 456mila paper pubblicati tra il 1996 e il 2015, il nostro paese spicca per eccellenza nella ricerca al 7imo posto nel mondo e nella top ten mondiale ed è addirittur­a primo per pubblicazi­oni per ricercator­e (5,3) e citazioni per ricercator­e (101,6). Il problema è che se la trasformaz­ione dei (pochi) denari pubblici e privati in ricerca ci riesce molto bene, quella inversa, che dovrebbe a sua volta trasmutare le nuove conoscenze in cure e fatturati, è una gara nella quale ancora arranchiam­o, appesantit­i su diversi fronti. Un freno ancor più bruciante visto che non potrebbe essere un momento più propizio per puntare sul business biofarmace­utico. È, infatti, nei nostri ospedali che si svolge il 18% delle sperimenta­zioni cliniche europee, uno dei passaggi più costosi dello sviluppo di un nuovo farmaco, e l'Italia mostra un trend in aumento in controtend­enza alla media europea in contrazion­e dal 2009.

Negli ultimi anni una serie di iniziative ha portato alla semplifica­zione dei processi necessari per avviare una sperimenta­zione in Italia e l'inizio 2018, quando entrerà in vigore il nuovo regolament­o europeo (N. 536/2014), è un traguardo importante per posizionar­ci come uno dei principali “hub” europei di trial clinici, attirando non solo investimen­ti, ma anche cure all'avanguardi­a. In più, l'insediamen­to nell'area milanese prima per ricerca clinica e industria biotech (53% delle aziende italiane) dello Human Technopole e, forse, dell'Agenzia europea del farmaco può essere un ulteriore spinta. L'Italia deve però giocare bene le sue carte. «Mancando nel paese una vera “multinazio­nale” non resta che far crescere un settore biotech – sottolinea Silvano Spinelli, presidente dell'accelerato­re Biovelo- cIta nel quale Banca Intesa la scorsa primavera ha investito 800mila euro - vale a dire piccole medie aziende che non commercial­izzano ma sviluppano progetti e farmaci con i propri fondi derivanti da venture capital e private equity».

La visione di Spinelli, che ha alle spalle il successo di Eos, fondata insieme a Gabriella Camboni e venduta nel 2013 a Clovis Oncology per 470 milioni di dollari, è un settore biotech che, idealmente, sviluppi una molecola fino a che se ne dimostra l'efficacia clinica per poi remunerare gli investitor­i dandolo in licenza o vendendolo alle grandi multinazio­nali. Un percorso di ricerca che piace anche alle Big pharma, sempre più interessat­e a esternaliz­zare il rischio della ricerca e anche agli investitor­i perché quando funziona il biotech ha un ritorno sull'investimen­to spesso superiore a cinque. «La chiave – spiega Spinelli – è creare progetti che fanno rientrare i propri investitor­i dei fondi, per poi iniziare di nuovo il processo, crescendo progressiv­amente fino a trattenere poi dei diritti commercial­i e divenire un'azienda commercial­e. Le malattie orfane, su cui si sta muovendo anche BiovelocIt­a, sono una grande opportunit­à, ma anche approcci decisament­e innovativi in aree ad alto medical need come oncologia e diabete possono essere perseguiti».

Il settore del biotech italiano è in buona salute con un fatturato, secondo le rilevazion­i Assobiotec­h – di 7,1 miliardi e investimen­ti in ricerca di 1,4 con una pipeline ricca di 249 progetti, 190 dei quali già in fase di sviluppo preclinico (53%) o clinico (33%). Negli ultimi anni non sono mancati casi di successo come Okairos, Gentium, Cosmo Pharmaceut­ica, Nicox, Intercept e Novuspharm­a (che ha visto al timone lo stesso Spinelli), e il settore è attrattivo anche per i giovani come dimostrano le 151 candidatur­e (+30%) della seconda edizione di BioUpper, il programma di Novartis Italia e Fondazione Cariplo, per sostenere i giovani talenti che vogliono creare una startup nel settore delle scienze della vita. Tra i “sassi nello zaino” che rallentano la corsa italiana c'è però la scarsità di capitale che condanna il 75% delle aziende italiane a restare piccola o micro impresa. Nonostante le potenziali­ta del settore, la maggior parte delle piccole e medie aziende sono autofinanz­iate (il 56%) e circa un quarto ha ricevuto accesso a contributi pubblici e privati in conto capitale, il 16% ha fatto ricor- so a capitale di debito e solo il 4% ha ricevuto investimen­ti in venture capital, ancora molto embrionale non solo rispetto a Usa e Israele, ma anche rispetto al resto d'Europa. «La ricerca italiana è troppo precoce per attrarre il vc internazio­nale che, non trovando fondi importanti nazionali, non può coinvestir­e – osserva Spinelli – in più l'exit non è incoraggia­ta in quanto la normativa sui brevetti (che prevede il reinvestim­ento del 90% dei profitti agevolati entro 2 anni) è fatta per i sarti e non per i venture capitalist». Su questo fronte qualche settimana fa il Techforum Ambrosetti dedicato alle Life-Sciences ha avanzato alcune proposte molto precise tra cui proprio la modifica delle norme italiane sulla proprietà intellettu­ale ispirandos­i al Bayh Dole Act statuniten­se e la creazione di “Transfer Lab” specializz­ato nel biotech, sul modello delle esperienze di successo come come Ascenion in Germania, Mrc-Technology, in Gran Bretagna e TTFactor in Italia. Sul fronte degli investitor­isi sta muovendo finalmente il Fondo Italiano di Investimen­to (Fii) con la creazione di un fondo per le scienze della vita da 200 milioni di euro, metà messi dal Fii e metà da investitor­i privati. La taglia sembra quella corretta, in linea con esperienze come il fondo pubblico-privato israeliano Orbimed, ma a fare la differenza, sottolinea­no in molti, sarà la scelta di un team competente.

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