I «brogli», ultima spiaggia di Trump
Il magnate utilizza il tema per riconquistare terreno, ma i fatti lo smentiscono
Ci sono i 24 milioni di registrazioni elettorali incorrette. E gli 1,8 milioni rimasti nelle liste anche dopo essere deceduti. È da simili cifre che prende le mosse la crociata di Donald Trump sui brogli alle urne.
È la sua ultima missione per ribaltare le sorti di una campagna che lo vede in affanno. Cacciatore di elettori zombie, di morti-votanti, coadiuvati da clandestini e criminali armati di schede che non dovrebbero possedere. Un j’accuse - davanti a sondaggi che lo vedono concedere il 90% del voto afroamericano, l’80% di quello ispanico e il 55% contro il 35% dell’elettorato femminile - volto a mettere aggressivamente in guardia il Paese da eserciti di zombie organizzati in una cospirazione ai danni suoi e del comune cittadino (possibilmente bianco e non immigrato).
Le iperboli del tycoon sono in realtà smentite dai fatti. Il pericolo, avverte il Dipartimento della Giustizia, è ancora oggi piuttosto la discriminazione, soprattutto razziale: per rispettare restrizioni imposte dalla Corte Suprema il governo potrà inviare ispettori federali a protezione dei diritti civili in soli quattro Stati rispetto ai 13 del 2012. Diffuse manipolazioni elettorali del genere evocato da Trump sono invece semmai più difficili che in passato: 14 Stati su 50 hanno leggi più severe sul voto e l’identità degli elettori che non nel 2012. Una ricerca del Pew Center ha sì rivelato errori in 24 milioni di elettori registrati - ben uno su 8 - ma contando mancate variazioni di indirizzo e iscrizioni che tardano a essere cancellate in molteplici stati. E le liste, è vero, comprendono quasi due milioni di scomparsi, ma è rarissimo riscontrare che qualcuno provi a impersonarli. Le inchieste mostrano insomma al più la necessità di aggiornare e adeguare il sistema, non di pattugliarlo con arrabbiati militanti di partito.
La conferma della pochezza dello spettro dei brogli arriva da un parallelo studio della New York University: ha rilevato solo 31 casi di irregolarità effettive su oltre un miliardo di schede esaminate tra il 2010 e il 2014. Vale a dire un rischio di truffa alle urne ben 15 volte inferiore rispetto a quello di cadere vittima di un fulmine. Né sussiste alcun segno di immigrati illegali in coda ai seggi, spettro sollevato da Trump che ha accusato il presidente Barack Obama di “importarli” apposta.
Nei singoli Stati, compresi quelli più combattuti e spesso gestiti da amministrazioni conservatrici, il responso è simile: l’Ohio ha sospettato nel 2012 alcune decine di voti irregolari, voti doppi e residenti senza cittadinanza che si sono recati alle urne. «Casi esistono ma vengono puniti e non sono affatto un’epidemia», ha detto Jon Husted, il funzionario locale repubblicano responsabile delle elezioni. Il Wisconsin negli anni ne ha scoperto una ventina su tre milioni di schede passate al setaccio. In Pennsylvania ci sono stati 28 casi e 17 condanne tra il 2000 e il 2016.
Il mito delle elezioni rubate ha tuttavia radici profonde nell’immaginario collettivo. In stati quali il Texas e la Florida, 8 repubblicani su 10 danno credito a brogli. Il precedente storico più noto risale forse al 1960, allo scontro tra John F. Kennedy e Richard Nixon. Nel mirino finì la celeberrima “macchina” del partito democratico in Texas e a Chicago, dove era gestita dalla dinastia dei Daley e diede la vittoria in Illinois a Kennedy grazie a un numero particolarmente elevato di consensi in una singola contea. È considerato ancora oggi quello il più incerto scontro presidenziale americano, deciso da una scarto di 113mila voti su 68 milioni. C’è anche chi sostiene che Nixon rinunciò sotto pressione a protestare il voto per il bene del Paese. «Devi ingoiare questo rospo», dice un funzionario del partito a Nixon nell’omonimo film di Oliver Stone.
Ma se questo è il grande antecedente, molto più rilevanti - e fuor di mitologia - per il dibattito odierno sul diritto di voto sono i recenti casi di elezioni contestate. Qui spesso sono entrate in gioco polemiche sulla soppressione del voto a danno di minoranze etniche, giovani e ceti disagiati. Nel 2000 salì alla ribalta la Florida, che alla fine diede la vittoria al repubblicano George W. Bush sul democratico Al Gore. Solo dopo una incandescente sfida i cui stretti margini fecero scattare automaticamente nuovi conteggi. Tra schede difettose per gli “hanging chads”, i coriandoli staccati solo in parte dopo la punzonatura, oppure confuse, come nella Contea di Palm Beach dove la collocazione dei nomi dei candidati tolse voti a Gore, la disputa fu decisa dalla Corte Suprema per 537 voti. Quattro anni dopo sospetti caddero sul risicato voto dell’Ohio, a sua volta vinto da Bush contro John Kerry.
È da allora che sono scattati a livello statale adeguamenti delle tecnologie utilizzate nelle urne - oggi il 39% del voto è diventato elettronico e per il 56% su schede cartacee con scanner ottico - anche se manca tuttora omogeneità nazionale. La saga elettorale americana rimane però segnata da ricorrenti ricorsi contro la discriminazione. Il diritto al voto, anzitutto al Sud che ora sarà in gran parte esentato da controlli federali, ha sofferto a lungo del retaggio delle cosiddette leggi “Jim Crow”, che sancivano la segregazione e istituivano, fino agli anni Sessanta, test di “alfabetizzazione” a discrezione dei funzionari locali mirati a escludere gli afroamericani dalle urne.
Polemiche su sforzi meno eclatanti, ma con simili obiettivi, non sono svanite: numerosi Stati sono finiti nel mirino nel 2016 per regole troppo restrittive. In Florida decollano periodiche “purghe” degli elenchi di elettori per depennare i condannati di reati penali, sforzi che in passato hanno portato a eliminare centomila persone quasi tutte di colore poi risultate spesso vittime di errori. Nei mesi scorsi la magistratura ha bocciato norme di identificazione in North Carolina giudicate punitive verso gli afroamericani, tribunali hanno agito allo stesso modo in North Dakota e le hanno ridimensionate in Wisconsin e Texas. Qui, per votare, venivano rifiutati documenti d’identità studenteschi e tribali. Il Kansas ambisce a richiedere al più presto prove documentarie di cittadinanza. Nei quartieri poveri spesso esplodono critiche sulle carenze di numero e orari delle urne.
Trump, nel denunciare a priori brogli alle urne a causa di troppi e fasulli elettori, ha ricordato a molti l’eco di posizioni discriminatorie e di tentativi di scoraggiare la partecipazione al voto. È sceso su un terreno minato coltivato a volte dalla destra più radicale. Un terreno che, lungi dallo spezzare tabù, minaccia di inserirsi in una tradizione che l’America cerca di superare a fatica, quella della diseguaglianza non soltanto sociale ed economica ma nell’esercizio del diritto di voto.