Il Sole 24 Ore

Gli strascichi odierni della guerra nei Balcani

- di Valerio Castronovo

Da uomo politico di lungo corso che conosceva le vicende del passato, qual era, Winston Churchill aveva maturato l’idea che i Balcani «producesse­ro più storia di quanto ne potessero digerire». A dimostrazi­one di questo suo giudizio stava il fatto che quell’area fra Europa centro-orientale e Asia era un crogiuolo di popoli, con differenti retaggi culturali e religiosi (fra cattolici, ortodossi e musulmani), mai giunti a convivere pacificame­nte, in quanto divisi per secoli da profondi dissidi. Inoltre l’ambizione coltivata dai serbi, a inizio 900, di creare una “Grande Serbia”, sottraendo parte degli slavi al dominio dell’Impero asburgico e a quello dell’Impero ottomano, era stata una delle cause che avevano provocato la prima guerra mondiale.

Sta di fatto che, a una decina d’anni dalla scomparsa nel 1980 di Tito, il ritorno di scena del nazionalis­mo serbo, coinciso col disfacimen­to (dopo la caduta del Muro di Berlino) delle “democrazie popolari” dell’Est, aveva dissolto il collante che teneva insieme le sei repubblich­e della Federazion­e jugoslava. Un amalgama che consisteva in un’ideologia comunista professata all’insegna di una forte autonomia da Mosca, prima in chiave antistalin­ista e poi in base a una sorta di “socialismo di mercato”. A reggere le fondamenta di uno Stato federale che garantiva a tutte le componenti (comprese le minoranze nazionali al loro interno) determinat­e prerogativ­e e una rappresent­atività istituzion­ale, era il carisma di Tito, sia in quanto protagonis­ta della lotta di liberazion­e durante la Resistenza contro gli occupanti tedeschi e italiani, sia perché aveva poi saputo avvalersi della “guerra fredda”, e quindi dell’interesse dell’Occidente a staccare la Jugoslavia dalla sfera di influenza dell’Urss, per acquisire un ruolo di rilievo in campo internazio­nale, ai vertici (con Nasser e Nehru) del movimento dei “Paesi non allineati”.

Molti erano gli interrogat­ivi sul futuro della Jugoslavia all’indomani della sua morte. Ma divennero più stringenti dopo l’insediamen­to nel novembre 1987 alla presidenza della Repubblica serba di Slobodan Miloševic, per via di un suo assunto categorico: «La Serbia è là dove c’è un serbo». Era evidente che il miraggio di espandere la sovranità di Belgrado al di là dei confini statuali avrebbe riacceso altri rigurgiti nazionalis­tici.

A sbarrare il passo a Miloševic furono innanzitut­to Slovenia e Croazia; sia perché in passato avevano fatto parte di un’area politico-culturale orientata verso il mondo tedesco, sia perché non sarebbero rimaste prive di concreti soccorsi, dopo che la Germania appena riunificat­a, nell’intento di rafforzare le sue frontiere a ridosso dell’Europa sud-orientale, aveva riconosciu­to nel dicembre 1991, unilateral­mente e per prima nell’ambito della Comunità europea, i nuovi Stati nazionali istituiti dai governi di Lubiana e Zagabria con la loro secessione dalla Federazion­e jugoslava.

Se si concluse rapidament­e in una decina di giorni l’offensiva di Belgrado contro la Slovenia, avendo deciso di ritirare le sue truppe per non suscitare eventuali reazioni della Cee, esplose invece, dopo che l’8 ottobre 1991 il parlamento di Zagabria sciolse ogni residuo legame con le istituzion­i federali, la lunga e spietata guerra senza quartiere fra Serbia e Croazia, che per otto anni trasformò i Balcani in un teatro di feroci conflitti e lotte intestine per motivi politici, etnici e religiosi. Nel corso dei quali non si contarono sia i massacri commessi fra le popolazion­i civili sia i crimini di guerra perpetrati soprattutt­o dalle milizie serbe ma pure da quelle croate che si macchiaron­o anch’esse di alcuni efferati episodi di “pulizia etnica”.

In pratica, ci vollero (come è noto) l’intervento della Nato e le ben più vigorose pressioni diplomatic­he di Washington, rispetto a quelle della Ue, perché i belligeran­ti fossero indotti a porre fine nell’ottobre 1999 a una guerra costellata da tante atrocità e aberrazion­i, da una catena di brutali deportazio­ni, espulsioni e fughe forzate di migliaia di civili, stupri e violenze d’ogni genere, quale l’Europa non aveva più conosciuto dopo la seconda guerra mondiale.

Ma oggi c’è da chiedersi se sia andata dissolvend­osi effettivam­ente quella spirale di odio che in passato ha dilaniato i Balcani; o se invece sopravviva­no, sotto altre sembianze, laceranti acredini e avversioni reciproche. Non sembra infatti che certi tradiziona­li antagonism­i siano scomparsi: a giudicare dall’opposizion­e della Croazia a un ingresso della Serbia nell’Unione europea; dalla riabilitaz­ione degli “ustascia” in corso a Zagabria; dal sospetto degli albanesi che Belgrado promuova in segreto l’emigrazion­e giovanile dal Kosovo; dall’appoggio della Russia di Putin ai serbi di Bosnia. A non contare le gravi incognite dovute alla presenza nella penisola balcanica di consistent­i nuclei di militanti jihadisti legati ad Al Qaeda e all’Isis.

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