Si raffredda (ma non troppo) il termometro dei bond sotto zero
Con la recente ondata di vendite che si è abbattuta sul mercato obbligazionario il controvalore globale dei titoli a rendimento negativo si è nettamente ridotto. Stando ai calcoli di Bloomberg dai picchi di giugno (12200 miliardi di dollari) siamo scesi a quota 9800. Un numero che, nonostante un calo del 19% dai massimi, risulta comunque elevatissimo a testimonianza della situazione di anomalia che si è venuta a creare in questi anni per effetto delle politiche monetarie espansive adottate dalle banche centrali.
Nonostante gli storni dell’ultimo mese i tassi restano ancora straordinariamente bassi. C’è quindi spazio per un’ulteriore discesa come sostiene chi da tempo lancia l’allarme sulla grande bolla dei bond? Forse ma, a leggere i commenti di analisti ed addetti ai lavori, è più probabile che quella in atto non sia altro che una correzione di breve periodo sulla scia di una risalita dell’inflazione che pare più pretestuosa che reale. Se è vero, come ha comunicato lunedì Eurostat che l’inflazione nell’Eurozona è risalita dello 0,5% (miglior dato dal 2014) è anche vero che questo è avvenuto solo grazie alla componente energia. Non a caso la rilevazione «core», cioè depurata delle componenti più volatili (quale appunto l'energia) è rimasta stabile: +0,8 per cento. Non ci sono solide motivazioni macroeconomiche che possano far ipotizzare un cambio di passo da parte della Bce sulla politica monetaria nel senso di una mancata proroga del Qe. Di certo su Mario Draghi le pressioni in questa fase si stanno intensificando. Soprattutto, e non potrebbe essere altrimenti, da parte tedesca. Ieri il governatore della Bundesbank Jens Weidmann è tornato ad attaccare la politica ultraespansiva adottata in questi anni sostenendo, che a lungo andare, potrebbe avere più costi che benefici. Nulla di nuovo per gli investitori che dal direttivo Bce dicembre non si attendono certo uno stop al Qe ma una sua proroga con eventuali aggiustamenti tecnici per ovviare al problema della «scarsità» di titoli acquistabili.
Di ben altro orientamento la Fed che, al direttivo di mercoledì, pur mantenendo i tassi invariati, ha espresso fiducia sul fatto che l’inflazione si attesterà verso i livelli obiettivo rinsaldando così le aspettative di una stretta al direttivo di dicembre. Decisione scontata che non è da mettere in relazione alla debolezza che ha colpito recentemente il dollaro. Debolezza che secondo il presidente di Delta HedgeRobert Baron non è neppure da attribuire all’avanzata di Trump nei sondaggi sulle prossime elezioni presidenziali negli Usa. «Prevediamo che la sua proposta di ridurre le tasse sulle società dal 35 al 15% provocherà un rientro dei capitali negli Stati Uniti che avrà l’effetto di rafforzare il dollaro».