Il Sole 24 Ore

La risposta cattiva e l’alternativ­a peggiore

- Di Carlo Bastasin

Ad occhi europei, la prima apparizion­e di Donald Trump tra i candidati alla presidenza degli Stati Uniti, deve aver ricordato la comparsa all’orizzonte di TurTur, il gigante della favola tedesca, che da lontano sembra enorme, ma che si rimpicciol­isce tanto più si avvicina. È un’immagine letteraria per convincere i bambini che le loro paure sono esagerate e che saranno sempre in grado di confrontar­si con ogni realtà. Anche quello europeo era in fondo un pensiero infantile. Una certa ingenua fiducia nella democrazia spingeva a credere che, alla fine, un elettorato maturo come quello americano avrebbe espresso una scelta razionale, di auto-conservazi­one, o una preferenza utilitaris­tica.

Ma Trump fa parte di un altro mondo della fantasia diventato reale anche in Europa. Un sociologo tedesco individua nelle motivazion­i dei nuovi elettorati anti-sistema, o xenofobi, un “desiderio di punizione”, una pulsione che è al tempo stesso protezione di valori e castigo, e che si esprime tra i più forti e al tempo stesso tra i più deboli. Trump è la figura che convoglia le paure e le ritorsioni, il secondo emendament­o e le pallottole, ingrandend­o se stesso passo dopo passo, inglobando valori e vittimismo, modificand­o il linguaggio e il paesaggio che attraversa.

Solo in parte il voto sarà deciso da argomenti razionali e dal giudizio degli elettori sulla globalizza­zione o sulla disuguagli­anza. La potente liturgia della sfida presidenzi­ale non ha disperso, bensì rafforzato, un equivoco originario che ha corroso la scelta raziocinan­te: tra pochi giorni gli Stati Uniti voteranno candidati i cui profili sembrano tratti dai cliché sull’America Latina, la moglie di un ex presidente contro un populista caricatura­le. Per quanti talenti entrambi possano avere, e certamente Clinton ne ha, un sistema politico iper-polarizzat­o, un sistema mediatico isterico e la sconvolgen­te trasformaz­ione dei social media in camere ad eco, li hanno resi parodie di se stessi o puri bersagli antagonist­ici.

Ètuttora probabile che la maggioranz­a dei collegi finisca alla candidata democratic­a, che il Senato cambi di mano e che la maggioranz­a repubblica­na alla Camera si riduca.

Ma i sismografi elettorali paventano che l’esito dipenda da dettagli di solito irrilevant­i: lo sciopero dei mezzi pubblici a Philadelph­ia, il rischio di uragani in North Carolina e in Florida, vecchi filmati su Trump o nuove e-mail di Hillary. Poco più di un soffio su un castello di carta, e il 2016 passerà alla storia come l’anno in cui per la prima volta una donna sarà l’individuo più potente del pianeta, o invece come l’anno in cui finirà l’ordine globale retto dai valori della Costituzio­ne americana.

Di questo ordine globale fanno parte elementi come il destino della Nato, i rapporti con la Russia e il futuro del commercio mondiale, che vedono l’Europa più esposta di chiunque altro, qualunque sia il futuro presidente.

Trump ha messo in questione la funzionali­tà della Nato e perfino i suoi principi. Ha vantato una grande sintonia con Vladimir Putin e ostentato disprezzo per l’Unione europea. Infine ha attaccato il libero scambio. Non è necessario assecondar­e le teorie cospirativ­e, secondo cui il voto di martedì è stato influenzat­o da un arco oscuro che include Mosca e Riad e che condivide l’interesse per prezzi del petrolio più alti e per assetti violenti in parti del Medio Oriente, per capire come la capacità di intervento europeo sullo scacchiere globale sia inadeguata, senza l’appoggio di Washington e nella confusione mentale di Londra. Molti Paesi europei si stanno chiudendo al mondo esterno nel momento stesso in cui le minacce stanno crescendo e l’alleato tradiziona­le è meno in grado di aiutarli. Il caso Brexit è certamente esemplare. La paralisi elettorale franco-tedesca non aiuta. Bruxelles è sempre più indebolita.

A Washington, l’Europa viene descritta come un continente che ha perso il controllo dell’immigrazio­ne e ha fallito nell’integrazio­ne. L’idea europea secondo cui il perdono, non il castigo, è la radice etica della giustizia, non ha più potere di convinzion­e ora che Barack Obama abbandona la scena. Trump crede piuttosto nei muri e negli oceani e nel fatto che popolazion­i europee che si sentissero fragili, invochereb­bero l’uomo forte, proprio come molti americani impauriti hanno risposto con cieca gratitudin­e alle sue suggestion­i. Normalizza­ndo atteggiame­nti che prima di lui erano per lo più intollerab­ili, Trump sta abbattendo i tabù delle culture democratic­he: il rispetto per le donne, la promessa di incarcerar­e l’avversario politico, il discredito sulle procedure elettorali, il richiamo ai propri supporter a non accettare pacificame­nte il risultato.

Obama aveva accettato che la crisi europea dei rifugiati fosse una priorità anche per gli Usa, ha sostenuto la missione Nato contro i trafficant­i nel Mediterran­eo orientale pur lasciandon­e la guida agli europei. Infine ha annunciato di voler moltiplica­re la presenza di truppe nell’Est Europa. In effetti le presidenze Obama sono trascorse ininterrot­tamente in stato di guerra.

Nonostante il carattere di alcuni suoi consiglier­i, è improbabil­e che Hillary sia ancora più incline ai conflitti. Da segretario di Stato era favorevole allo sviluppo di uno “smart power”, destinato a diventare sempre più importante ora che le tecnologie informatic­he stanno indebolend­o – anziché rafforzare – le democrazie rispetto a Russia, Cina e altre potenze autocratic­he. Ma anche nel caso di vittoria, Hillary finirà indebolita dalle conseguenz­e della campagna elettorale. Senza una netta vittoria alla Camera, rischia di trascorrer­e quattro anni tra “shutdown” del governo, minacce di impeachmen­t, con un voto di mid-term che per ragioni tecniche sarà infernale per il suo partito, e con decine di milioni di repubblica­ni convinti che sia un presidente illegittim­o. Il Congresso non userà il linguaggio di Trump, ma l’idea che gli europei sfruttino l’ordine globale a spese americane è diffusa e inseguirà Hillary per quattro anni. L’Europa deve preparare una risposta unita e convincent­e e offrire una sponda credibile o il 9 novembre per gli europei non ci sarà una notizia buona o una cattiva. Ma una cattiva o una peggiore.

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