Il Sole 24 Ore

Se il «fattore paura» detta il ritmo dei mercati

- di Vittorio Carlini

«Il fear factor». Il fattore «paura». Sempre di più, nel mondo dei mercati, assume rilevanza il sentiment del timore, della preoccupaz­ione. Certo: può obiettarsi che, ad esempio, il Vix da anni è monitorato e sfruttato. L’indice per l’appunto della «paura», calcolato con la volatilità implicita delle opzioni sull’S&P 500, è da tempo un must degli operatori. Quindi il «fear factor» non sarebbe una novità. Vero! E tuttavia la realtà è cambiata. Negli ultimi tempi le variabili legate all’«umore», alla psicologia dei mercati hanno aumentato il loro peso. Una dinamica dovuta ad un mix di cause. In primis c’è l’ormai avvenuta trasformaz­ione dei listini in habitat ipertecnol­ogici. Luoghi dove i dati delle singole società sono finiti sullo sfondo e l’approccio quantitati­vo opera per flussi. Cioè: l’investitor­e, attuando analisi top-down (ad esempio sui multipli di settore), crea l’asset allocation senza guardare al singolo titolo. Bensì si espone ad un intero comparto («risk on»), oppure ne esce («risk off»), sfruttando prodotti finanziari (il più classico è l’Etf) che permettano di sfruttare (e creare) velocement­e i flussi dei mercati. Con il che le variabili di sentiment, quali per l’appunto il «fear factor» diventano essenziali. Soprattutt­o perchè la sempre maggiore interconne­ssione delle Borse rende gli eventi non economici molto rilevanti. L’esempio? Lo offrono le votazioni popolari. Nel giugno scorso si è visto cosa è accaduto con il referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Ue. L’ipotesi della Brexit è stata affrontata soprattutt­o in termini di timore per i possibili suoi effetti negativi. Un fattore «paura» che peraltro, almeno rispetto all’azionario, è risultato assolutame­nte fuorviante. Certo: la dinamica del Ftse 100 è stata correlata alla svalutazio­ne della sterlina. E, però, le previsioni catastrofi­che sul crollo della Borsa londinese sono risultati errati. Al di là di ciò non può comunque negarsi che, rispetto all’evento, la variabile paura abbia recitato un ruolo essenziale. Lo stesso, a ben vedere, sta accadendo con le elezioni statuniten­si. Il candidato democratic­o Hillary Clinton è visto (a torto o a ragione) come elemento di «continuità» con il recente passato. Quindi la rimonta del repubblica­no Donald Trump è analizzata, nella grande parte dei report e dei commenti di mercato, attraverso le lenti della «paura». O, perlomeno, dell’incertezza. Sia ben chiaro: non si dà alcun giudizio di valore sulle singole candidatur­e. Ciò che, tuttavia, deve notarsi è proprio la crescita dell’approccio polarizzat­o nell’investimen­to: da una parte il positivo e dall’altro il negativo. Una situazione che, alcuni anni fa, non era ipotizzabi­le in queste dimensioni. Ma che, come tante volte è stato sottolinea­to, nella nuova era della liquidità elettronic­a ha invece preso sempre più piede. Così: la settimana prossima è il turno della Casa Bianca. Tra un mese, invece, toccherà al referendum italiano...e il «fear factor» è sempre lì.

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