Il Sole 24 Ore

Il carcere e la fatica del perdono

- Di Nunzio Galantino

C’è chi non ha rinunziato a sporcaree strumental­izzare coni mezzi a propria disposizio­ne–la falsità prima ditutto–nemmeno l’ attenzione al mondo delle carceri e dei carcerati che lo stesso papa Francesco ha voluto riservare in quest’ ultima parte dell’ anno giubilare della misericord­ia.

C’è in giro, e non fa assolutame­nte niente per nasconders­i, una capacità di chiusura che arriva a stravolger­e o a silenziare su questo come su altri temi anche parole sempliceme­nte ispirate al mandato evangelico: visitare i carcerati.

So bene che a qualcuno non è piaciuto l’auspicio «per una piena accoglienz­a delle istanze volte a superare il degrado in cui, non soltanto i detenuti, ma gli stessi agenti di custodia, i volontari e gli educatori si muovono».

Non smetto però di ritenere importante l’attenzione da riservare al mondo delle carceri. Un mondo per certi versi invisibile, una realtà umanamente pesante: penso alla lunga lista di suicidi che avvengono nelle prigioni, penso alle tante vite spezzate, penso alle persone fragili che sono detenute per reati minori. Spesso in questi luoghi manca una rete di appoggio, il più delle volte offerta dai volontari o dall’umanità di chi opera lì dentro, come i cappellani e quanti si spendono per accompagna­re coloro che nel percorso di detenzione, come alla sua conclusion­e, si trovano privi di qualunque opportunit­à riabilitat­iva e occupazion­ale. Penso a uno per tutti: don Gino Rigoldi. Ne ricordo l’opera perché lo conosco; ma, credetemi, non è assolutame­nte l’unico.

Ho varcato tante volte l’ingresso delle carceri. Altrettant­e volte, prima di farlo, avevo cercato di immaginare le parole da dire alle persone che lì dentro avrei incontrato per colloqui personali o per momenti celebrativ­i particolar­i.

Confesso però che lo sguardo, le parole e i gesti non sempre e immediatam­ente benevoli dei reclusi mi hanno quasi sempre portato per un’altra strada. Hanno chiesto altro dal mio cuore di uomo e di prete. Mi hanno portato il più delle volte a dire altro o addirittur­a a tacere.

È capitato lo stesso a papa Francesco quando, il 21 Giugno del 2014, iniziò dalla Casa circondari­ale di Castrovill­ari la sua visita pastorale alla Diocesi di Cassano all’Jonio. Un giorno di sole e tanta, davvero tanta gente ad attenderlo fuori dalla Casa circondari­ale. Varcato l’ingresso, papa Francesco si trovò dinanzi uomini e donne che portavano segnate sul loro volto storie certamente faticose. Aveva tra le mani il suo discorso scritto ma, dopo aver ascoltato le parole di saluto del direttore e di uno dei detenuti, fissando gli occhi dei reclusi e quelli altrettant­o commossi degli operatori presenti nel cortile, scelse di mettere da parte le parole scritte. E sì! Perché il carcere, come l’ospedale, è un luogo che non sopporta la teoria e fatica ad accettare giudizi senza appello. Capisce e accoglie solo il linguaggio della vicinanza. Una vicinanza che è possibile solo a chi cerca, in un certo modo, di fare quello che dice di aver fatto Maria von Wedemeyer scrivendo al suo fidanzato, Dietrich Bonhoeffer, rinchiuso nel carcere di Tegel e poi fatto impiccare da Hitler. «Ho tracciato con il gesso una linea intorno al mio letto, larga all’incirca come la tua cella. Ci sono un tavolo e una sedia, come io mi immagino. E quando sono seduta lì, credo quasi di essere insieme a te » . Uno “stare insieme” che si fa ascolto e condivisio­ne, ma che non rinunzia alla verità.

È vero. Aver commesso un reato non autorizza a considerar­e e a trattare il condannato come un uomo senza diritti; soprattutt­o se la privazione dei diritti tocca gli aspetti più elementari che rendono la vita di ogni uomo una vita dignitosa.

La verità esige però di non dimenticar­e tutte quelle persone o quelle situazioni che sono state danneggiat­e da comportame­nti illegali, spesso irrazional­i e violenti.

È davvero difficile trovare l’equilibrio in tutto questo. È difficile soprattutt­o quando continui a pensare che non esistono storie compromess­e per sempre e degne solo di essere malamente rottamate.

Ricordo, a questo proposito, di aver vissuto momenti di profondo imbarazzo durante una celebrazio­ne nella sala adibita a cappella presso il carcere di Castrovill­ari.

Al momento dello “scambio della pace” avevo chiesto ai reclusi di guardare negli occhi il compagno o la compagna vicini e di immaginare che al loro posto ci fossero le persone che era- no state danneggiat­e fino a far loro meritare la pena della detenzione. Guardarli negli occhi – avevo chiesto loro – e impegnarsi a riparare il male fatto una volta scontata la pena.

Molti, in quel momento, si rifiutaron­o di stringere la mano al proprio vicino. Dopo il prevedibil­e imbarazzo da parte mia e dopo essermi domandato se non avessi, con quella richiesta, offeso i detenuti, ho capito che altro è chiedere perdono al Signore, come avevamo fatto all’inizio della celebrazio­ne cantando il nostro “Kyrie eleison”, e altra cosa è chiedere perdono con i fatti a quanti sono stati danneggiat­i e offesi. Accompagna­re il recluso a perdonare se stesso e ad accettarsi, aiutarlo a progettare una vita di relazioni ritrovate è la fatica più improba.

In quel carcere e ad ascoltare papa Francesco, quel 21 giugno, c’era l’assassino di padre Lazzaro Longobardi, un prete a me ancora tanto caro, e i parenti di un bimbo di tre anni bruciato con altre due persone alcuni mesi prima, sempre a Cassano.

A tutti i detenuti Francesco, in nome di queste vittime e delle tante vittime della violenza che avevano segnato col loro sangue quella terra, chiese di trasformar­si da segni e da presenze negative in segni e presenze positive. Penso sia questo il senso del Giubileo dei carcerati che si celebrerà domani. Nessuna assoluzion­e a buon mercato quanto piuttosto una pervicace e faticosa voglia di dire a tutti che ci si può rimettere in piedi.

È questo e solo questo il senso che ha il prossimo giubileo dei carcerati voluto da papa Francesco e che non può non trovare consenso in chi continua a credere nella perfettibi­lità dell’uomo.

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