Così Ankara taglia i ponti con l’Europa e l’Occidente
Un Paese che con migliaia di arresti attua una sistematica repressione dei media, della politica, della magistratura e dove lo stato ha preso il controllo di 500 imprese private, è fuori dal quadro liberale occidentale.
E non aspira a entrarci - a noi basta avere i visti europei, ha detto Erdogan al ministro italiano Gentiloni - ma intende usare Bruxelles e Washington soltanto come una leva per negoziare intese funzionali all’obiettivo di rafforzare il suo potere personale e le ambizioni neo-ottomane. Erdogan rifiuta la Turchia smembrata dal trattato di Sévres del 1920 puntando a insediare zone turche in Siria e in Iraq. Un po’ come Putin respinge una Russia ridimensionata dalla fine dell’Urss. Ma gli imperi di solito si frantumano e non si ricostituiscono. La prima riflessione è che la politica occidentale è stata un discreto fallimento. Per molto tempo l’Europa ha lasciato la Turchia in sala d’aspetto con la non troppo celata evidenza che non l’avrebbe mai accettata. Così Erdogan e il partito Akp, che dal 2002 stravincono quasi ogni elezione, si sono impadroniti del potere mentre il sistema-Akp garantiva una crescita economica invidiabile nella regione e dava uno status sociale agli strati popolari, tradizionalisti e religiosi, sistematicamente emarginati dallo stato secolarista e kemalista. Bruxelles e Washington volevano utilizzare la Turchia come un “ponte” verso il mondo musulmano, additando come esemplare il suo modello di “democrazia all’islamica”, e invece la Turchia è diventata sempre più mediorientale. Se ne sono accorti, forse volutamente, troppo tardi.
L’operazione più spericolata è stata quella condotta dagli Usa e da alcuni loro alleati come la Francia approvando nel 2011 l’”autostrada della Jihad” per abbattere il regime di Assad, pensando che sarebbe stata una questione di pochi mesi: il 6 luglio di quell’anno l’ambasciatore Usa a Damasco, seguito da quello francese, si recò a passeggiare tra i ribelli di Hama. Una cosa mai vista. Ma grande è stata la delusione di Erdogan e dei sunniti quando nel 2013 l’America non ha bombardato Assad. Sono errori che si pagano. La Turchia ha deciso di fare da sola, con il sostegno delle monarchie del Golfo, usando anche i jihadisti, come dimostrò l’inchiesta del quotidiano Chumurriyet. La guerra dichiarata da Erdogan a tutti i curdi, non soltanto al Pkk - partita nel luglio 2015 dopo che lui stesso aveva buttato all’aria l’accordo con Ocalan - ma anche la retata contro i parlamentari ha un obiettivo primario: far fuori l’opposizione non ancora “addomesticata” e confezionare un regalo ai militari schierati in Siria e in Iraq che hanno sempre visto nei curdi e nel terrorismo del Pkk il loro nemico mortale. Dopo le purghe nelle forze armate, seguite al golpe, Erdogan aveva bisogno di rafforzane il morale: i soldati sono entrati in Siria per frantumare il Rojava dei curdi siriani e anche in Iraq dove Ankara vuole partecipare alla battaglia di Mosul come stato protettore dei turcomanni e dei sunniti. Per la Turchia il Califfato è stato il mostro provvidenziale che ha permesso a Erdogan di dare il via alla guerra nel Sud-Est e negoziare con gli Usa la concessione della base di Incirlik in cambio dei bombardamenti sui curdi siriani, l’incubo geopolitico di Ankara. L’afflusso di due milioni di profughi siriani ha reso possibile l’accordo con l’Unione mentre il golpe fallito lo ha posto nelle condizioni di chiedere agli Usa l’estradizione di Fethullah Gulen. Eppure, dopo le proteste rituali, Washington e Bruxelles continueranno a trattare, soprattutto ora che la guerra del Siraq è a una svolta: su questo conta Erdogan per consolidare il regime pur rischiando un conflitto a tutto campo con i curdi.
La domanda è se possiamo davvero permetterci un altro raìs con cui fare affari e che allo stesso tempo ci ricatta. La risposta la sappiamo già.