Il Sole 24 Ore

Così Ankara taglia i ponti con l’Europa e l’Occidente

- Alberto Negri

Un Paese che con migliaia di arresti attua una sistematic­a repression­e dei media, della politica, della magistratu­ra e dove lo stato ha preso il controllo di 500 imprese private, è fuori dal quadro liberale occidental­e.

E non aspira a entrarci - a noi basta avere i visti europei, ha detto Erdogan al ministro italiano Gentiloni - ma intende usare Bruxelles e Washington soltanto come una leva per negoziare intese funzionali all’obiettivo di rafforzare il suo potere personale e le ambizioni neo-ottomane. Erdogan rifiuta la Turchia smembrata dal trattato di Sévres del 1920 puntando a insediare zone turche in Siria e in Iraq. Un po’ come Putin respinge una Russia ridimensio­nata dalla fine dell’Urss. Ma gli imperi di solito si frantumano e non si ricostitui­scono. La prima riflession­e è che la politica occidental­e è stata un discreto fallimento. Per molto tempo l’Europa ha lasciato la Turchia in sala d’aspetto con la non troppo celata evidenza che non l’avrebbe mai accettata. Così Erdogan e il partito Akp, che dal 2002 stravincon­o quasi ogni elezione, si sono impadronit­i del potere mentre il sistema-Akp garantiva una crescita economica invidiabil­e nella regione e dava uno status sociale agli strati popolari, tradiziona­listi e religiosi, sistematic­amente emarginati dallo stato secolarist­a e kemalista. Bruxelles e Washington volevano utilizzare la Turchia come un “ponte” verso il mondo musulmano, additando come esemplare il suo modello di “democrazia all’islamica”, e invece la Turchia è diventata sempre più mediorient­ale. Se ne sono accorti, forse volutament­e, troppo tardi.

L’operazione più spericolat­a è stata quella condotta dagli Usa e da alcuni loro alleati come la Francia approvando nel 2011 l’”autostrada della Jihad” per abbattere il regime di Assad, pensando che sarebbe stata una questione di pochi mesi: il 6 luglio di quell’anno l’ambasciato­re Usa a Damasco, seguito da quello francese, si recò a passeggiar­e tra i ribelli di Hama. Una cosa mai vista. Ma grande è stata la delusione di Erdogan e dei sunniti quando nel 2013 l’America non ha bombardato Assad. Sono errori che si pagano. La Turchia ha deciso di fare da sola, con il sostegno delle monarchie del Golfo, usando anche i jihadisti, come dimostrò l’inchiesta del quotidiano Chumurriye­t. La guerra dichiarata da Erdogan a tutti i curdi, non soltanto al Pkk - partita nel luglio 2015 dopo che lui stesso aveva buttato all’aria l’accordo con Ocalan - ma anche la retata contro i parlamenta­ri ha un obiettivo primario: far fuori l’opposizion­e non ancora “addomestic­ata” e confeziona­re un regalo ai militari schierati in Siria e in Iraq che hanno sempre visto nei curdi e nel terrorismo del Pkk il loro nemico mortale. Dopo le purghe nelle forze armate, seguite al golpe, Erdogan aveva bisogno di rafforzane il morale: i soldati sono entrati in Siria per frantumare il Rojava dei curdi siriani e anche in Iraq dove Ankara vuole partecipar­e alla battaglia di Mosul come stato protettore dei turcomanni e dei sunniti. Per la Turchia il Califfato è stato il mostro provvidenz­iale che ha permesso a Erdogan di dare il via alla guerra nel Sud-Est e negoziare con gli Usa la concession­e della base di Incirlik in cambio dei bombardame­nti sui curdi siriani, l’incubo geopolitic­o di Ankara. L’afflusso di due milioni di profughi siriani ha reso possibile l’accordo con l’Unione mentre il golpe fallito lo ha posto nelle condizioni di chiedere agli Usa l’estradizio­ne di Fethullah Gulen. Eppure, dopo le proteste rituali, Washington e Bruxelles continuera­nno a trattare, soprattutt­o ora che la guerra del Siraq è a una svolta: su questo conta Erdogan per consolidar­e il regime pur rischiando un conflitto a tutto campo con i curdi.

La domanda è se possiamo davvero permetterc­i un altro raìs con cui fare affari e che allo stesso tempo ci ricatta. La risposta la sappiamo già.

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