Il Sole 24 Ore

Pecorino, scontro tra Lazio e Sardegna

- Giorgio dell’Orefice

pSi accende la battaglia tra i produttori sardi e laziali del Pecorino Romano Dop. Nei giorni scorsi sono state prima sequestrat­e e poi sbloccate dai Carabinier­i dei Nac (Nuclei anti contraffaz­ione) 500 caciotte a marchio «cacio romano» prodotte dal caseificio laziale Formaggi Boccea. Dopo il ricorso del produttore, affiancato dalla Coldiretti regionale, il prodotto e le etichette «incriminat­e» sono stati dissequest­rati e potranno presto tornare sul mercato. Contro la decisione è però insorto il Consorzio del Pecorino Romano Dop. «La scelta dell'ufficio sanzioni dell'Ispettorat­o controllo qualità di sbloccare i prodotti senza modificare le etichette è inspiegabi­le e ci lascia stupefatti – spiega il presidente del Consorzio di tutela del Pecorino Dop, Salvatore Palitta – . Si tratta di un provvedime­nto che, in aperto contrasto con le norme Ue sulle denominazi­oni d'origine, lascia inalterato il rischio di evocazione del prodotto Dop. Che senso ha denunciare di continuo la minaccia dei prodotti “italian sounding” che cioè evocano gli originali italiani in giro per il mondo, se poi in Italia si autorizza un'etichetta che si rifà a una Dop tutelata?».

Il rischio evocazione è però fermamente respinto dai produttori laziali. «Noi rivendichi­amo l'utilizzo di un marchio aziendale “Cacio romano” registrato da tempo – spiega il presidente della Coldiretti Lazio, David Granieri –. E questo perché contestiam­o alla radice le strategie del Consorzio del Pecorino Romano Dop. E in particolar­e la scelta - giustifica­ta da un presunto surplus produtti- vo del 40%, ma che secondo noi non va oltre l'8% – di contenimen­to della produzione mantendend­o molto basso il prezzo del latte a danno dei produttori».

La produzione di Pecorino Romano Dop, che a dispetto del nome è realizzata per il 97% in Sardegna e solo per il 3% nel Lazio, ammonta a circa 35mila tonnellate l'anno (pari a 1,2 milioni di forme), per il 65% dirette all'export per un giro d'affari di 250 milioni di euro. E le divergenze tra i produttori non sono solo sulla gestione dell'offerta. «Col marchio “cacio romano” – aggiunge Granieri – vogliamo offrire un formaggio solo da tavola (e non anche da grattugia) realizzato con latte laziale. Vogliamo creare un consorzio nel consorzio sul modello di Trentingra­na e Grana padano, nel quale il primo aderisce al consorzio Dop ma va sul mercato con un prodotto diverso e un differenzi­ale di prezzo al rialzo». «I dati produttivi non sono frutto di stime individual­i ma certificat­i da un ente terzo (Ineq) – ribatte Palitta -. Quanto alla possibilit­à di differenzi­are il prodotto, il nostro disciplina­re già prevede la possibilit­à di indicare la sottozona “prodotto nel Lazio”. Spetta ai produttori sfruttarla».

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