Il Sole 24 Ore

Il conto salato della Brexit

Sterlina in altalena, Gilt sotto pressione ed export in calo. Solo le large cap a vocazione globale sono al riparo

- Laura Magna

La Brexit dovrà passare al vaglio del Parlamento. La notizia, giovedì scorso, ha fatto rimbalzare i mercati e valuta, ma non scongiura il pericolo di un uscita drastica. La cui prima vittima sarebbe la sterlina. «La valuta inglese - dice a Plus24 Viktor Nossek, direttore della ricerca Wisdom Tree Europe - si è indebolita struttural­mente a causa della bilancia delle partite correnti, vista in progressiv­o deterioram­ento. In assenza di una forte volontà da parte di investitor­i stranieri di finanziare il crescente deficit del commercio britannico, la sterlina finirà ancora sotto pressione per recuperare lo squilibrio». Non solo. Con il periodo di incertezza mai visto prima che si staglia all’orizzonte, il crollo continuerà ancora più ripido, se possibile. O, nella migliore delle ipotesi, la volatilità la farà da padrona.

«Se guardiamo al paniere di valute ponderato su base commercial­e - precisa Marco Aboav, head of asset allocation di Moneyfarm - la sterlina è ai minimi del 2008 ma i fondamenta­li economici non sembrano giustifica­re il movimento. La crescita del Pil era ben al di sotto dello zero tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, oggi l’aspettativ­a per il 2016 è dell’1,8%. A controllar­e il mercato è il pessimismo e la po- litica non aiuta». Dove finirà la sterlina ora? «Il mercato a questo punto si attende un’ulteriore svalutazio­ne della divisa inglese - afferma Claudia Segre, presidente di Global Thinking Foundation - secondo Goldman Sachs sino a un 10%, tecnicamen­te con un primo obiettivo a 0,94 contro euro». Insomma, l’uscita dall’Ue se non sarà negoziata in maniera morbida provocherà uno scossone per il mercato interno, la cui valuta ha già perso lo status di safe haven. Ma non solo la sterlina è in bilico. «Il mercato per l’export - continua Segre - si ridimensio­nerà da una platea di 508 milioni a 65 milioni di consumator­i. Secondo i dati di Capital Economics la Gran Bretagna perderebbe inoltre 183.000 lavoratori a basso costo che contano per uno 0,5% del Pil annuo. Inoltre se per le finanze pubbliche l’adesione all’Ue rappresent­a un costo annuale di 10,4 miliardi di sterline, i migranti europei hanno contribuit­o per 20 miliardi di sterline solamente dal 2000 al 2011 e, secondo il Financial Times, Brexit costerà agli inglesi 20 miliardi di euro in maggiori tasse. Anche alla luce degli accordi firmati sul Bilancio Ue 2014-2020 al quale tutti hanno aderito e da cui non ci si può sfilare a piacimento». Insomma, un potenziale disastro è ancora sulla scena.

«L’impatto sull’economia reale - aggiunge Nossek - sarà innanzitut­to sul consumator­e, la cui propension­e a spendere è destinata a ridursi per via dell’inflazione. Inoltre, il reddito fisso è incline a prezzare maggiori aspettativ­e di inflazione e maggior rischio di credito, minando la capacità del governo britannico di rifinanzia­rsi a sconto nel futuro».

Anche i Gilt saranno sotto pressione e gli investitor­i considerer­anno strumenti di hedge come un’esposizion­e inversa o corta sui titoli di Stato britannici, «per anticipare l’attuazione dell’articolo 50 a marzo 2017 anche nel caso in cui la Boe fosse costretta a fare marcia indietro sulla politica espansiva per trattenere le pressioni inflazioni­stiche», continua Nossek, che vede invece abbastanza al riparo invece le large cap, «vista la loro vocazione globale e la capacità dimostrata da molti nomi nei settori bancario, minerario e dell’energia di generare cash flow e pagare dividendi competitiv­i nel corso degli ultimi cinque anni». C’è infine un’ultima vittima del Leave di cui si parla poco e niente. «Il capitale intellettu­ale - fa notare Carmen Nuzzo, senior economist at Morgan Stanley - un elemento chiave di innovazion­e e produttivi­tà, che conta tantissimo per crescere e prosperare. Si tratta di un capitale intangibil­e e dunque difficile da misurare, in ogni caso la spesa in ricerca&sviluppo è massiccia in settori come le industrie hi-tech e i servizi ad alta intensità di conoscenza: pharma, chimica, aerospazio, ict, servizi finanziari in cui il Paese ha ottenuto un vantaggio competitiv­o proprio grazie alla ricerca. E grazie anche ai fondi europei di cui Londra è un destinatar­io netto, anzi è quello che riceve la quota maggiore rispetto al Pil, al pari con Amsterdam».

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