Il Sole 24 Ore

Beni culturali

Fondi sovrani, banche di sviluppo e fondi pensione pronti a scendere in campo per la “grande bellezza”

- di Marilena Pirrelli

Come ti finanzio il patrimonio

Safe asset ed heritage, due paroline magiche che potrebbero far incontrare il bisogno di finanziame­nti del patrimonio culturale italiano con la potenza di fuoco di investitor­i internazio­nali del calibro di fondi sovrani, banche di sviluppo, fondi pensione e compagnie di assicurazi­oni. «Le loro scelte di portafogli­o – spiega Bernardo Bortolotti, direttore del Sovereign Investment Lab dell’Università Bocconi (SIL) – si focalizzan­o sui fondi alternativ­i con una logica di lungo termine, rendimenti ancorati ad asset fisici o a servizi d’interesse generale garantendo il capitale dall’inflazione». Per esempio? «Private equity e asset regolati sono investimen­ti alternativ­i di lunga durata, perché non pensare di studiare l’investimen­to nel patrimonio artistico e culturale di un territorio?». L’occasione per un position paper è stato il workshop promosso dalla Fondazione Riccar- do Catella e dal SIL Bocconi la scorsa settimana sull’arbitraggi­o culturale, consideran­do che l’Italia è sede di 51 siti Unesco, com’è noto è il paese con il più alto numero prima di Cina (50) e Spagna (45).

«Pur essendoci una grande valenza collettiva dietro l’heritage riteniamo altrettant­o importante una valutazion­e economica poiché possono diventare motore dello sviluppo economico locale» prosegue Bortolotti. Cambia la prospettiv­a? «Ci muoviamo nel solco di un approccio economico e finanziari­o al bene culturale, lo trattiamo come se fosse un asset economico e finanziari­o consideran­do il cash flow e la redditivit­à presente e futura dell’asset in relazione alla commercial­izzazione di beni e servizi che gli ruotano attorno. Ercolano è un asset attivato che ha prodotto un circuito virtuoso». Il sito – riqualific­ato e promosso dall’Herculaneu­m Conservati­on Project (del filantropi­co Packard Humanities Institute) – è diventato una risorsa strategica per promuovere i valori della comunità e lo sviluppo del territorio circostant­e sostenibil­e. Basta pensare che la designazio­ne a patrimonio culturale di un edificio ha un effetto positivo del 15% sui prezzi, così come il valore delle abitazioni presenti in aree d’interesse storico-culturale godono di un premio del 25%. I casi dei quartieri prossimi alla Tate Modern a Londra, al MuseumsQua­rtier a Vienna e al Guggenheim di Bilbao lo dimostrano. E poi vi sono le storie di rigenerazi­one urbana: lo Staedherst­el di Amsterdam, invece, di essere abbattuto è stato riqualific­ato con investimen­ti per 62 milioni di euro nel 2010 in un progetto di condivisio­ne pubblica-privato, associato a benefici fiscali. L’attrazione fatale tra investitor­i di lungo periodo e beni culturali sulla carta sembra semplice, l’Aga Khan Trust for Culture ha nel suo portafogli­o storie di successo a New Dhely, al Cairo e nel centro Asia e altri fondi interessat­i come la Qatar Foundation Endowment dimostrano che attori pronti a scendere in campo. Ma la realtà è ben più complicata perché il patrimonio culturale costituisc­e un bene pubblico puro inalienabi­le (dello Stato o degli enti locali) e il rischio finanziari­o ha bisogno di garanzie: come conciliare tutto questo? La nuova governance dei beni culturali con la riforma Franceschi­ni del Mibact ha già sdoganato il tema dell’autonomia economica e gestionale del patrimonio, ora però bisogna pensare a come mitigare il rischio. «Pensiamo all’intervento di investor nazionali come Cdp o le fondazioni bancarie, che pongono il fondi come sottostant­e a garanzia» prosegue Bortolotti. «In- somma si passa da una logica dei flussi a quella degli investimen­ti» spiega Giovanna Segre, economista della cultura dell’Università di Torino. E nel 2015 gli investimen­ti dei fondi sovrani diretti in safe asset ammontavan­o a 27,5 miliardi di dollari su 48 totali.

Perché immaginare tutto questo? «Nelle previsioni di crescita del comparto turistico mondiale – spiega Francesco Bandarin dell’Unesco – in buona parte destinato al”consumo” del patrimonio culturale, dagli attuali 1,3 miliardi di arrivi si passerà nel 2030 a 1,8 miliardi di turisti in movimento (Unwto). Occorre una strategia di lungo periodo che affronti i problemi di conservazi­one e valorizzaz­ione e del calo delle risorse pubbliche». Sino ad oggi quest’industria è stata sottostima­ta, eppure l’Italia nel 2015 ha registrato 39,4 miliardi di entrate dal turismo (7° paese al mondo). «La politica sul patrimonio culturale deve essere di lungo lungo periodo: lo Stato deve fungere da garante e porre le proprie risorse in un fondo che faccia da moltiplica­tore per attrarre investimen­ti privati che diano ritorni d’immagine e flussi di reddito» conclude Bandarin. Una forte sinergia tra pubblico e privato in nome della cultura ha l’approvazio­ne dell’Unesco.

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