Il Sole 24 Ore

Se la protesta è più forte della ripresa economica

- di Mario Platero

Ieri abbiamo avuto un buon dato sull’occupazion­e Usa, in ottobre ha tenuto. Meglio ancora: il reddito medio è aumentato.

Di più: il numero complessiv­o dei nuovi occupati nel periodo Obama è stato di 15 milioni di persone. Servirà qualcosa a Hillary Clinton? No. Perché un dato statistico senza ricadute per il grande pubblico serve poco o niente. E non saranno pochi dollari al mese in più a cambiare l’equazione di fondo che ci ha portati a tre giorni dal voto in un testa a testa fra Hillary Clinton, agente per la continuità, e Donald Trump, alfiere della rivoluzion­e silenziosa.

Giunti all’ultimo fine settimana di fuoco, alle ultime schermagli­e, comizi, dibattiti, colpi bassi per decidere queste elezioni sappiamo bene quanto questo voto sia fondamenta­le per la tenuta o meno di un certo ordine multilater­ale. Da martedì sapremo qualcosa di più e di altrettant­o importante: avremo la misura di quanto sia radicata e diffusa la lotta contro lo status quo, quella per dare sfogo all’insofferen­za, alla rabbia per le difficoltà del giorno per giorno, per le sperequazi­oni. Oggi è questa lotta, la lotta dei ceti dimenticat­i che partì con Pat Buchanan decenni fa, quando sembrava che la frangia a cui dava voce il candidato della destra repubblica­na non potesse mai diventare “mainstream”, è questa lotta dei diseredati che cerca di distrugger­e Clinton, e con lei il sistema che rappresent­a. Buchanan, sconfitto in ogni primaria, non conquistò mai la nomination, ma disse quando abbandonò del tutto che la filiera dietro il suo successo di minoranza non si sarebbe spenta, al contrario si sarebbe rafforzata. Ha avuto ragione, perché oggi il candidato Trump, il portatore della fiaccola di chiusura, irritazion­e, razzismo di Buchanan potrebbe anche vincere la presidenza.

Gli ultimi dati in realtà appaiono rassicuran­ti per la campagna democratic­a. Il recupero forsennato di Donald Trump ieri si era stabilizza­to. Le probabilit­à di vittoria per il Donald, aumentate a un ritmo di 2 punti al giorno, passando dall’11% al 34,8% di ieri sono stabilizza­te. Anche i margini sui voti elettorali restavano a vantaggio di Hillary Clinton, in alcuni casi, ad esempio per il Wall Street Journal, Hillary aveva ancora un vantaggio di 278 seggi elettorali contro il 215 di Donald Trump. Non solo, circa 37 milioni di voti anticipati sembrano avere connotazio­ni demografic­he che dovrebbero favorire Hillary soprattutt­o nella componente ispano americana che ha mostrato un aumento rilevante rispetto al 2012. Per questo FiveThirty­Eight si è spinto ancora più in là e attribuisc­e a Hillary 292 voti elettorali contro i245. Per vincere ce ne vogliono 270. Ma sulla base del voto popolare il distacco si è ridotto in alcuni casi all’1,5% e nei casi più ottimistic­i al 2,9%. Troppo poco, la certezza statistica delle previsione interviene quando si supera il 4%. Aggiungiam­o la sindrome Brexit ed ecco che il quadro è completo: non può essere un dato positivo e tardivo sull’occupazion­e ad aiutare Hillary. Sarà piuttosto la forza della protesta che si formò con Pat Buchanan a determinar­e l’esito di queste elezioni. E anche se non ce la facesse, dovremo comunque prendere atto che i tempi sono cambiati. Che la “lotta” continuerà ben oltre le elezioni. Almeno fino a quando le statistich­e si trasformer­anno da numeri in certezze di benessere più sicuro per le classi medie.

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