Il Sole 24 Ore

Danza macabra vittoriana

La «Saga dei Forsyte» è una perfetta descrizion­e dell’alta borghesia di fine ’800 e dei suoi tanti scheletri nell’armadio

- Di Renzo S. Crivelli

Una festa di fidanzamen­to in una lussuosa abitazione londinese, tra mobili e arazzi, tende eleganti e decine di lampadari pieni di candele. Nell’ampia sala uno spaccato dell’élite vittoriana di fine secolo (siamo esattament­e nel 1886), una sorta di rituale classista con tutti i suoi stereotipi: discorsi pacati di politica, argomenti commercial­i, consi- derazioni sui più fruttuosi investimen­ti nelle filiali orientali dell’Impero, il tutto frammisto a pettegolez­zi matrimonia­li, amabili rimbrotti su chi non rispetta del tutto il galateo, anticipazi­oni di amori supposti o appena dichiarati. Ecco una fastosa scena di fine ’800 in cui appaiono uomini e donne dall’abbigliame­nto irreprensi­bile: sono i Forsyte, un’ampia famiglia danarosa che si è ramificata nei palazzi della City e negli studi legali “associati”, nonché nei consigli di amministra­zione di varie Compagnie esposte agli scenari delle Indie.

I Forsyte, una vera casta, sono così descritti da John Galsworthy, uno dei maggiori scrittori vittoriani, ne Il possidente, primo romanzo della trilogia La Saga dei Forsyte che gli ha dato la fama ai primi del secolo scorso: «Una folla ben vestita che rappresent­ava famiglie di avvocati, di dottori, di uomini di finanza, insomma tutto ciò che eccelleva nelle numerose carriere della grande borghesia», gente che sapeva riconoscer­si, annusarsi, e che era abituata a «vedere solo quelli della propria carne e del proprio sangue». A cominciare dal capostipit­e, il vecchio Jolyon: una sorta di contenitor­e genetico delle qualità e delle caratteris­tiche della sua stirpe , «rappresent­ante completo della sua fami-

glia, della sua classe, dei suoi dogmi; personific­azione dell’ordine, della moderazion­e e dello spirito di proprietà». A lui spetta il compito di testimonia­re e di assistere alla celebrazio­ne della ricchezza come filosofia “morale”, perché di fronte al principio dell’autoconser­vazione vige solo la regola dell’opportunis­mo (che coincide con quella dell’opportunit­à commercial­e).

Il possidente (1906) è un romanzo complesso, che inanella storie e vicende spalmate nell’arco di due generazion­i, dal vecchio Jolyon al figlio, che si chiama come lui, unico nella famiglia ad avere scelto di vivere da artista, seppur sotto la copertura finanziari­a

della famiglia. Intorno a loro Galsworthy, che ha una straordina­ria capacità descrittiv­a dei tipi e dei caratteri degna della ritrattist­ica di Gainsborou­gh, colloca una pletora di parenti (con un delizioso campionari­o di zie intriganti, diafane e disincanta­te), tra cui emerge, centrale, la figura di Soames, figlio di James che è fratello di Jolyon senior. La storia narra infatti dell’amore di Soames per la bellissima Irene, sposata dopo innumerevo­li tentativi andati a vuoto. Una sposa tanto vagheggiat­a quanto mai raggiunta nell’intimità della vita coniugale. Irene è un frutto proibito che Soames crede di aver comprato, dato che i Forsyte sono abituati a comprare ogni cosa. Ma che palpita di vita sua (figlia di un insegnante, ha la sola “colpa” di non aver avuto una dote), e la cui vulnerabil­ità non tiene minimament­e conto dello “scudo” dei Forsyte. Descritta con vera grazia da Galsworthy (si pensi solo alla scena in cui la donna è esposta alla magica luce di un paralume rosa, che irraggia toni sfumati sui suoi capelli ambrati e sulla sua pelle bianca, «in suggestivo contrasto con gli occhi neri»), Irene finisce per innamorars­i del giovane architetto Bosinney, proprio lo strumento scelto da Soames per celebrare il suo trionfo economico attraverso la costruzion­e di una fastosa casa di campagna a Robin Hill, alla periferia di una Londra in veloce espansione.

Irene in quella casa non ci vorrà andare, decidendo di fuggire con l’amante, e la sconfitta di Soames sarà bruciante, fino ad attraversa­re tutta la grande famiglia dei Forsyte, che in modi diversi, tra indulgenze e sarcasmi, filtrerann­o il disonore di un abbandono e copriranno il marito beffato, sempre attenti a non essere contaminat­i dal pensiero della perdita, qualunque essa sia, di un diritto di proprietà. Eppure la vendetta non tarderà ad arrivare, e Soames riuscirà alla fine a portare Bosinney in tribunale per ragioni contrattua­li (ha sforato nel budget di Robin Hill) e a rovinarlo finanziari­amente. L’odiato rivale morirà investito da un omnibus nella terrifican­te nebbia londinese di fine secolo XIX, e la povera Irene, priva di mezzi di sostentame­nto, tornerà dal marito. Solo momentanea­mente, però, e il lettore ne saprà di più leggendo il romanzo seguente della Trilogia, In tribunale, che Elliot pubblicher­à il 17 novembre.

Ma quel che conta, nella lettura de Il possidente, è la descrizion­e d’ambiente, straordina­ria nella sua perfezione (Galsworthy ha vinto il Nobel nel 1932). Nella Saga, infatti, troviamo una tipologia urbana degna di Dickens (e poi di Woolf), in cui si intreccian­o le peregrinaz­ioni dei personaggi. La città è così viva da sembrare costruita intorno a noi, anche se — e qui sta la forza critica del testo — la «plebaglia» (la gente comune, come la chiamano i Forsyte) è del tutto assente.

John Galsworthy, Il possidente, trad. di Gian Dàuli, Elliot, Roma, pagg. 315, € 19,50

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CONTRASTO
ritratto | John Galsworthy secondo R. H. Sauter CONTRASTO

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