Il mio Zimbabwe e i suoi demoni
Romanzo d’esordio, «Le confessioni di Memory» si propone di «dire la verità sulla mia gente in tutta la sua bellezza e meschinità»
Si chiama Memory e il suo nome è un destino, una condanna e una salvezza. Non potrà, non dovrà che ricordare perché la memoria non è un ornamento della vita, ma la sua stessa chiave: grazie alla memoria «all’improvviso capisci cose che prima non potevi sapere: il ricordo acquista un senso e lo riscrivi rendendolo coerente» . La memoria è soprattutto l’unica possibilità di sopravvivenza per la ragazza rinchiusa nel braccio della morte e colpita da una doppia, crudele eccezionalità: è la prima donna in vent’anni condannata a morte ma, ancora più grave, è un’africana albina. Il colore della sua pelle non è nero ma neanche realmente bianco come quello dei colonizzatori del Paese prima dell’indipendenza: il suo è un candore spettrale, simile a quello dei fantasmi, non una malattia, dicono, ma sicuramente il frutto di un maleficio, di una stregoneria.
Le confessioni di Memory è il romanzo d’esordio, tradotto in molti Paesi e ora in Italia (con la buona traduzione di Stefania De Franco), di Petina Gappah , una giovane donna nera cresciuta nello Zimbabwe che ha poi completato studi di legge a Cambridge e a Graz. Come lei stessa racconta nella nota finale dedicata ai ringraziamenti, ha scritto questo libro con un impegno preciso: dire «la verità sulla mia gente in tutta la sua bellezza e meschinità, in tutta la sua esasperante complessità». A parlare in prima persona è la giovane protagonista, con disperazione e lucidità. Di una sua compagna di prigionia entrata in carcere nell’ultimo anno della vecchia Rhodesia, cioè prima dell’indipendenza, dice che «non ha idea di come sia stata la vita negli ultimi trent’anni, non conosce le profonde contraddizioni di questo Paese: l’unità nazionale ottenuta con i massacri al Sud, la discriminazione contro i bianchi le cui vittorie olimpiche sono parte integrante dei successi di cui la nazione si vanta, la valanga di leggi che garantiscono la parità alle donne e la cultura che assicura che restino sottomesse». La storia di Memory, infatti, attraverso la tragedia personale è e vuole essere un affondo nel cuore del suo Paese visto né con gli occhi del cronista estraneo che ha l’illusione di essere oggettivo, né con la passione faziosa di chi lo vive totalmente dall’interno. Lei, la nera albina, contraddizione nel suo stesso corpo, può parlarne con quell’affascinante groviglio di partecipazione e distacco che è il magnetico registro narrativo del libro.
Memory non è stata solo una delle tante bambine costrette alla sottomissione, tanto più feroce per la sua anomalia, ma ha subito un ulteriore drammatico abuso: a dieci anni è stata venduta dai genitori al bianco Lloyd, un inglese figlio e nipote dei colonizzatori. Da allora la sua vita è si è trasformata, per poi cambiare ancora, dieci anni dopo, il giorno in cui l’uomo viene trovato assassinato. Nessuno perde tempo a cercare un plausibile colpevole, benché le violenze contro i bianchi rimasti siano all’ordine del giorno: è evidente per la polizia, i giudici, la gente che la circonda che l’assassina non può essere che lei, l’erede che da quella morte ci guadagna. Il memoriale che leggiamo la ragazza lo sta scrivendo per una reporter americana determinata a ristabilire l’andamento dei fatti. Ma i fatti della vita di Memory sono molto complicati.
Perché la piccola albina è stata venduta? Questa domanda sorregge il racconto fino allo scioglimento dell’enigma, che non è lecito rivelare perché fa parte della tensione narra- tiva del libro. Ma prima della spiegazione, che cambia il senso del racconto, il lettore è invitato a seguire Memory nelle tre scene dove il presente e il passato si incrociano: il terribile carcere di massima sicurezza di Harare, l’ex Salisbury , con le sue carceriere aguzzine e le altre detenute che la disperazione e la repressione non riesce a privare di canti, risate, voglia di vivere; l’elegante villa dell’uomo che l’ ha comprata, con personaggi sgangheratamente sopravvissuti all’epoca coloniale; la township, il sobborgo dove Memory fino al giorno della vendita è vissuta, in mezzo alla miseria e all’allegria, alla sofferenza e alle canzoni, con madre, padre, fratelli vivi e morti, vicini beffardi, compagni di scuola crudeli, streghe e stregoni, pastori di sette più o meno evangeliche che turbano i fedeli, e con gli spiriti, tutti gli spiriti che la tradizione indigena individua come fondamentali presenze della comune vita quotidiana, soprattutto lo ngozi, il demone della vendetta che ritorna laddove c’è stata una morte violenta. È questa della vita nella township e del dramma che si consu- ma nella famiglia di Memory la parte più affascinante di questo affresco sorprendente di una realtà africana vista con rifiuto e insieme con amore. E forse è la parte più legata alla vita dell’autrice, che attribuisce alla sua protagonista soprattutto una qualità salvifica: l’amore per i libri e per la scrittura. Memory come Sherazade scrive per salvarsi la vita. Ma il lettore non sa se la memoria destinata alla giornalista americana riuscirà davvero a ridare la libertà a quella che chiamano «l’albina assassina». La libertà reale di Memory è il prodigio della memoria che si fa scrittura, che non solo può così mescolare mondi lontani e vicini, passato e presente, ma trovare uno spazio, quello della parola, dove, fuori dalle aule di una incerta giustizia e dai mormorii faziosi della gente bianca e nera , è possibile dare respiro alla verità.
Petina Gappah, La confessione di Memory, traduzione di Stefania De Franco, Guanda, Milano, pagg. 284, € 18