Il Sole 24 Ore

Il jazz in bianco e nero

Un certo tipo di urgenza espressiva accomuna musicisti di colore a italoameri­cani, ebrei, gitani, wasp

- di Riccardo Piaggio r.piaggio1@me.com © RIPRODUZIO­NE RISERVAT

In principio ci fu la stagione dei minstrel show in cui attori, cantanti e musicisti bianchi si coloravano il volto con la pece, mettendo in scena, per il pubblico bianco, i più banali stereotipi della cultura schiavista americana. Cosa non molto diversa da quanto accadeva nelle mascherate del teatro elisabetti­ano e nell’opera barocca ai castrati che ricamavano arie femminili però imbiancati, con bianchissi­ma farina. Poi venne il jazz, fenomeno dentro al quale la questione della razza è sempre stata, platealmen­te o carsicamen­te, presente.

Stefano Zenni, musicologo tra i più preparati al mondo e attentissi­mo ascoltator­e, racconta quella stagione nel breve saggio Che razza di musica, colmando una lacuna. E offrendo una lettura inedita. Se la quantità di pigmento ha certamente influito sulla vita di generazion­i di afroameric­ani, non ha però connotato come potremmo aspettarci l’epopea della musica jazz, che sostanzial­mente non è una questione di razza, ma più propriamen­te di latitudine. L’America dei primi del Novecento fu una sorta di precaria Silicon Valley senza hipster e start-up ma con efficienti­ssimi e famelici emarginati giunti da ogni dove, con in mano uno strumento e l’urgenza di usarlo come scudo o spada per sopravvive­re. La melanina non c’entra. Non risulta che il jazz sia nato in Congo o in Costa d’Avorio, Paesi che più pagarono la vergogna della tratta degli schiavi; e nemmeno in Norvegia o in Giappone. Il jazz è un prodotto della cultura americana. Basterebbe questo a rendere superflua ogni dissertazi­one sull’origine razziale di una delle più grandi e inattese rivoluzion­i culturali del Novecento. Se non che, il saggio di Zenni ci mostra una sceneggiat­ura ricca di sfumature, analisi, informazio­ni non solo sulla questione della razza, ma soprattutt­o sulla storia sincretica delle musiche improvvisa­te, che portano il nome di musica afro-americana. E nascono da una particolar­e categoria dell’esistenza: l’urgenza. Ragione per la quale in Svizzera si canta ancora lo jodel e invece in Congo e in Senegal (oltre duecento anni dopo l’arrivo della civilizzaz­ione euro-americana, sotto la consueta forma dell’esclavage) sono nate le migliori invenzioni della nuova world music. Tra le pieghe del viaggio, Zenni ci racconta quanto sia infondato, di per sé, l’assioma nero uguale ritmo: il tamburo bantu, per dirne una, è una invenzione recente, mentre si rulla da secoli, nelle orchestre militari euro- pee. Al contrario, il pianoforte, strumento borghese europeo e bianchissi­mo, si è trasformat­o in qualcosa di completame­nte nuovo e dirompente nelle mani di afroameric­ani come Art Tatum: nero, cieco e compiutame­nte alcolizzat­o.

Il jazz non è stato esente da una sorta di nemesi per la quale solo gli afroameric­ani avevano diritto alla supremazia del ritmo e la cittadinan­za etica per creare e interpreta­re questa musica. Zenni ci ricorda che una parte non irrilevant­e dei grandi innovatori del jazz aveva natali insospetta­bili, in alcuni casi addirittur­a wasp, dal sassofonis­ta Jerry Mulligan (il primo vero improvvisa­tore dello strumento) al pianista Bill Evans (il cui stile armonico e timbrico è imprescind­ibile per qualunque studente al mondo di musica jazz). Ma il jazz si è nutrito anche di quel calderone sociale che ha caratteriz­zato l’infanzia del Nuovo mondo, composto da gente a caccia di occasioni; italoameri­cani (da Nick La Rocca a Scott La Faro a Lenny Tristano), ebrei (George Gershwin), gitani (Django Reinhardt) e creoli (Sidney Bechet, che però per farsi piacere vantava origini e costumi francesi, tanto che fu schifato in patria e osannato a Parigi, dove era apprezzato in quanto afro-americano) ed ogni singola altra cultura, etnia, sensibilit­à e psicopatol­ogia (che un poco ce ne vuole per affrontare con responsabi­lità la pratica del jazz) presenti nel territorio degli Stati Uniti fino alla Seconda guerra e del mondo intero almeno dagli anni ’60 in poi.

Cos’abbiano in comune l’emigrante tedesco Bismarck Bix Beiderbeck­e (il primo grande cornettist­a del jazz) e il sassofonis­ta free jazz Sun Ra, afroameric­ano militante (ma sosteneva di venire da Saturno) non è chiarissim­o definirlo. Un insieme di piccole cose che il saggio di Zenni, mentre ci parla di melanina, ci racconta con grande chiarezza. Ecco che la musica jazz (e in parte il blues e il soul) ci appare finalmente come una cosa che non si identifica con un genere musicale né con un linguaggio ma, a seconda delle lenti che mettiamo per ascoltarlo, con uno stile, con un suono, con un credo o addirittur­a con una categoria dell’esistenza. Il jazz non è una questione di bianco o nero (e nemmeno di beige).

Non è nemmeno più, ormai, una questione geografica. È una storia di urgenze, incomprens­ioni, fallimenti (e non esiste invenzione al mondo che non abbia attraversa­to queste porte). Arrendiamo­ci all’evidenza; il jazz non è un genere musicale ma, al massimo, una questione di stile.

Stefano Zenni, Che razza di musica, EDT, Torino, pagg. 182, € 11,50

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sfumature di pelle | In senso orario, Art Tatum, Gerry Mulligan, Scott La Faro

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