Il Sole 24 Ore

La sfida Usa un segnale per l’industria europea

- Di Stefano Manzocchi

Al termine di due giornate tra le più sorprenden­ti e rimarchevo­li della storia recente, le prospettiv­e economiche della presidenza Trump restano in gran parte un punto interrogat­ivo. L’immediata e inattesa reazione euforica dei mercati finanziari; le prime dichiarazi­oni del presidente eletto a proposito di un grande piano per l’economia americana che rafforzi le infrastrut­ture e la competitiv­ità, prendendos­i anche cura dei ceti danneggiat­i dalla globalizza­zione; l’incertezza su chi potrebbe diventare il prossimo segretario al Tesoro, lasciano per ora spazio a diverse interpreta­zioni. Gli analisti pronostica­no già che alcuni settori riceverann­o una spinta dalla nuova amministra­zione, dalle costruzion­i al farmaceuti­co alla difesa, mentre altre potrebbero subire contraccol­pi negativi, dalle informatio­n technology alle energie alternativ­e. Ma sembra troppo presto per trarre conclusion­i in tal senso.

Quel che è emerso dalla campagna di Trump e dalla composizio­ne delle constituen­cies che lo hanno condotto alla Casa Bianca, è la cifra di un “pragmatism­o patriottic­o” che rimette al centro dell’agenda Usa la manifattur­a come cuore dell’interesse nazionale. In questo, facendo anche propria almeno a parole una retorica anti-Wall Street che attraversa da molti anni la politica americana nelle sua versioni di destra come di sinistra. Come tutto questo si tradurrà in una riforma del settore finanziari­o è ancora incerto e poco chiaro, anche se un ritorno alla separazion­e tra banche d’investimen­to e banche commercial­i stile GlassSteag­al Act è assai improbabil­e specie se al Tesoro andrà un uomo della finanza. Più facile invece prevedere un’attitudine poco favorevole sia al multilater­alismo commercial­e, peraltro già in profonda crisi, sia al regionalis­mo economico dei grandi blocchi e dei grandi trattati che hanno supplito alla stasi della Wto negli ultimi decenni, dal Nafta al Ttp tra Usa e Paesi asiatici, al Ttip in discussion­e tra le due sponde del Nord Atlantico e che si trasformer­à nella migliore delle ipotesi in accordo commercial­e meno stringente (ma forse meno difficile da approvare).

L’Europa si troverà di fronte un alleato poco propenso a facili concession­i, intenziona­to intanto a ridurre il contributo americano alle spese della Nato dal 45% al 37% del totale e che insisterà affinché il Vecchio continente aumenti da subito il suo contributo. Si troverà di fronte un partner commercial­e che invocherà la clausola nazionale per una serie di settori considerat­i strategici e non sarà disposto a negoziare sugli standard ambientali e igienico-sanitari con la stessa disponibil­ità dell’amministra­zione Obama. Per gli altri grandi attori del sistema economico globale, in primo luogo la Cina, le trattative con i nuovi repubblica­ni al potere si faranno più aspre a partire dalle procedure anti-dumping e dalla valutazion­e sfavorevol­e degli interventi cinesi sul mercato dei cambi. L’implementa­zione dell’Ita (Informatio­n technology agreement) tra Cina e Stati Uniti per tagliare di un terzo i dazi sugli scambi di prodotti ad alta tecnologia tra i due Paesi, ad esempio, potrebbe forse tornare oggetto di negoziati sui tempi e modi di applicazio­ne.

Sta scadendo il tempo per l’Unione europea per utilizzare e valorizzar­e a pieno quell’asset immenso costituito da un mercato interno di quasi mezzo miliardo di consumator­i con un reddito medio elevato, anche al netto delle crescenti disparità. I progetti di Trump rischiano di ridicolizz­are un Piano Juncker per gli investimen­ti Ue che non sembra mai davvero decollato. Solo la consapevol­ezza di porre la manifattur­a europea al centro dell’azione manderebbe un segnale chiaro a partner sempre più conflittua­li sulla determinaz­ione europea a scommetter­e sul futuro, invece di aggrovigli­arci sul passato e sulle controvers­ie minute del presente. In attesa che l’Europa fornisca davvero quel segnale, la lezione americana per gli attori economici italiani è che non si può distoglier­e lo sguardo dalla base della nostra piramide della prosperità, quell’industria che richiede investimen­ti privati e un ambiente politico e culturale idoneo per diventare 4.0 e per anticipare le trasformaz­ioni dei prossimi anni.

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