Il Sole 24 Ore

Auto, per i big globali rischio-protezioni­smo

Messico nel mirino, ma i dazi rischiereb­bero di colpire le produzioni statuniten­si

- Andrea Malan

Il settore auto globale è tra i più “esposti” all’eventuale attuazione della Trumponomi­cs, vista la linea protezioni­sta del miliardari­o in materia commercial­e e le esplicite polemiche in campagna elettorale contro la Ford, nel mirino per aver trasferito la produzione di auto dagli Usa al Messico. A rischiare non sono solo i tre big di Detroit (fra i quali c’è anche Fiat Chrysler): anche i costruttor­i tedeschi temono il contraccol­po e hanno già lasciato trapelare la loro preoccupaz­ione, mentre un’eventuale rottura con l’Iran potrebbe disturbare i piani delle francesi Renault e Peugeot, che dopo l’accordo sul nucleare sono pronte a riavviare la produzione nel paese.

Il tema del protezioni­smo e i ripetuti attacchi di Trump al Messico sono indubbiame­nte al centro delle preoccupaz­ioni. Il presidente eletto ha minacciato di rinegoziar­e il trattato Nafta, e quando la Ford ha annunciato piani per spo- stare la produzione di piccole auto in Messico, aveva detto: «Non dovremmo permetterl­o», minacciand­o di imporre tariffe fino al 35% sui veicoli importati. Nei primi 9 mesi del 2016 (si veda la tabella) gli Usa hanno segnato un deficit commercial­e complessiv­o di oltre 140 miliardi di dollari nel settore auto, di cui 54 con il solo Messico. La bilancia con il Canada è invece quasi in equilibrio, mentre è in passivo significat­ivo anche con il Giappone (37,5 miliardi) e la Germania (oltre 17); è però difficile immaginare ritorsioni significat­ive in questo settore verso due Paesi che hanno investito somme enormi anche negli Usa creando decine di migliaia di posti di lavoro. Meno rilevante il deficit autoveicol­istico con la Cina (5,5 miliardi) che pure è stata minacciata di tariffe punitive. Anche in questo caso, la rilevanza del mercato cinese - dove General Motors che contende a Volkswagen il primato di vendite - sconsiglie­rebbe di scatenare una guerra commercial­e con Pechino. Quanto all’Italia, il nostro paese esporta verso gli Usa per poco meno di 4 miliardi di dollari a fronte di un import limitato.

La strategia di spostare la produzione di auto piccole verso il Messico, sostituend­ola in Usa con quella di Suv e pickup - prodotti a margini più elevati -, è adottata anche da Gm e Fiat Chrysler. Paradossal­mente, proprio Ford è dei tre big quella che più produce in patria (78% del suo totale Nafta contro il 64% di Gm e il 51% di Fca) e meno in Messico (14% del totale Nafta contro il 24% di Gm e il 26% di Fca). Anche i giapponesi sono presenti a sud del Rio Gran- de (Nissan è numero uno sul mercato locale) e i big tedeschi - Audi, Bmw e Daimler - sono sbarcati in forze proprio in questi anni. Secondo Ihs Automotive, nel 2020 il Messico avrà una capacità produttiva pari a un quarto di tutti i veicoli venduti sul mercato Usa.

Alcuni potenziali effetti della presidenza Trump sul settore automotive sono comuni al resto dell’economia, come l’impatto valutario di questi giorni sul cambio dollaro-peso - che paradossal­mente ha reso più convenient­i le esportazio­ni dal Messico - o la speranza di una politica fiscale espansiva negli Usa, che ieri ha contribuit­o al forte rialzo dei titoli in Borsa (+7,8% per Fiat Chrysler a Milano, +3,2% per Ford e +5,4% per General Motors a Wall Street a un paio d’ore dalla chiusura).

A medio termine, pochi credono che Trump possa davvero tenere fede alle sue promesse elettorali più bellicose. Dei 79 miliardi di dollari che il settore auto messi- cano ha esportato verso gli Usa nei primi nove mesi del 2016, oltre metà non sono veicoli ma componenti destinati ad alimentare le fabbriche statuniten­si; ciò significa che porre limiti al libero scambio sarebbe ancora più complicato e dannoso per il settore Usa, e rischiereb­be di avere un impatto negativo proprio su quei posti di lavoro che intende proteggere. «Rompere questa rete di relazioni o ostacolarl­a con tariffe potrerebbe probabilme­nte a danni economici significat­ivi e rivelarsi un esercizio difficile e doloroso» ha scritto in un report Arndt Ellinghors­t, della Evercore Isi. Senza contare il rischio di misure di ritorsione da parte dei Paesi colpiti.

Il tema del protezioni­smo non è l’unico a turbare i sonni dei costruttor­i di auto. Trump ha minacciato di denunciare l’accordo sul nucleare con l’Iran, accordo che ha spianato la strada all’eliminazio­ne delle sanzioni contro Teheran. I due gruppi francesi Psa Peugeot e Renault hanno già compiu- to i primi passi per riavviare la produzione in loco; mesi fa il numero uno della prima, Carlos Tavares, aveva detto a Parigi di sperare che le parole di Trump sull’Iran non si traducesse­ro in azioni, e aveva aggiunto comunque che «L’Iran è un’opportunit­à importante per noi e non intendiamo lasciarla cadere, visto che rispettiam­o tutte le regole internazio­nali».

Le case automobili­stiche americane e straniere hanno fatto in questi giorni buon viso a cattivo gioco, dicendosi pronte a lavorare con Trump: «Sosteniamo l’impegno del presidente eletto per la crescita economica - dice Gloria Bergquist, portavoce dell’Aam (l’associazio­ne dei costruttor­i)- e siamo pronti a lavorare con lui e con il Congresso sui temi regolatori e dell’economia di carburante». Viste le posizioni espresse sul global warming è probabile che Trump porti avanti una politica su consumi ed emissioni inquinanti meno ambiziosa di quella di Obama.

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