I timori per il made in Italy
L’export verso gli Usa, 36 miliardi, è più che raddoppiato dal 2009
Dal 2010 l’export dell’Italia verso gli Stati Uniti è un cavallo vincente che non ha mai smesso di galoppare. Dopo una brusca parentesi in frenata tra 2008 e 2009, negli ultimi 6 anni è sempre cresciuto a 2 cifre (+20% solo tra 2014 e 2015).
p Una locomotiva che macina chilometri a gran velocità.
Dai 17 miliardi del 2009 ai quasi 36 miliardi di euro messi a segno l’anno scorso, il valore è più che raddoppiato. E considerando che l’interscambio complessivo ammonta a poco oltre i 50 miliardi, ben si capisce che l’ago della bilancia pende inequivocabilmente sul lato del “Made in Italy”.
Certo – come illustra l’Istat – molto fanno l’automotive e la componentistica auto (quasi a +44% l’export 2015 sull’anno prima). Ma anche per la meccanica e i macchinari di vario impiego (+10%) è un eldorado da anni. Come per la moda (che l’anno scorso ha sfondato il tetto dei 4 miliardi di vendite transatlantiche, a +17%), gli alimentari (sfiorato il +20%) e i farmaci (passati da oltre 1 miliardo nel 2014 a più di 1,5 miliardi nel 2015, con una crescita del 43%).
Non è quindi un caso che, dal 2014, l’allora vice ed oggi ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, abbia avviato un “Piano Usa” (all’interno di quello più ampio per il “Made in Italy”) per incentivare l’acquisto, da parte della Gdo americana, di beni di consumo prodotti da marchi italiani e per contrastare l’Italian sounding. Partito dal Texas ed esteso a California, Illinois e Stato di New York, è stato rifinanziato con una “dote” da 70 milioni.
Sotto questo profilo, è chiaro che anche il Ttip – il tentativo (per ora naufragato) di arrivare a un accordo di libero scambio tra Usa e Ue, se impostato con equità e trasparenza – poteva essere un’occasione.
Anche perché gli Usa non sono un mercato privo di ostacoli. Molte sono le restrizioni, tra dazi e barriere fitosanitarie. Ad esempio, solo sui prodotti dell’acciaio, quelli italiani in entrata negli Usa sono daziati da un minimo del 6 a un massimo del 130 per cento.
«L’Europa e l’Italia hanno bisogno di mercati globali – ha detto ieri il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia – perciò dopo l’elezione del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non prevalgano indicazioni protezionistiche, nell’interesse sia degli Usa, che dell’Europa e dell’Italia. Noi abbiamo bisogno di mercati globali – ha aggiunto –e i mercati globali sono mercati di nicchia e i mercati di nicchia sono mercati per noi italiani».
Tra gli imprenditori, più che timore c’è attesa. Nel 2015 la mo- da ha esportato per 4 miliardi di euro negli Usa. Ma vendere lì abiti da uomo in lana pregiata costa già oggi alle aziende italiane il 18% di dazio.
«Le implicazioni della vittoria di Donald Trump potranno essere valutate solo nel medio periodo – ha detto Claudio Marenzi, presidente di Sistema Moda Italia –. Oggi gli Usa, nonostante la presenza di già forti dazi, sono una delle maggiori aree di export».
Giuliano Mosconi, presidente di Tecno (35 milioni di fatturato di cui 4 milioni in Usa), che fa arredo ufficio su progettazione e nel 2017 aprirà tra New York e Atlanta un centro di logistica e alcune lavorazioni, è rimasto sorpreso dall’esito del voto. Ma aggiunge: «i nostri prodotti di arredo ufficio sono sufficientemente distintivi, come lo sono spesso quelli del “Made in Italy” che lì arriva. Non credo che possano essere penalizzati sul medio periodo. In più abbiamo una crescita importante e creato uno snodo logistico proprio per poter tenere i ritmi e le tempistiche di consegna statunitensi».
Dal 2016 ha un sito produttivo in North Carolina anche Claudio Feltrin, presidente dell’azienda di arredo Arper (70 milioni di fatturato di cui il 20% a “stelle e strisce”): «Prendiamo atto che ha prevalso una linea di rottura. Noi creiamo occupazione e portiamo capitali. Vedremo se le “ricette” di Trump abbasseranno le tasse e porteranno più investimenti e domanda interna».
«Gli Usa sono il 3° mercato di export per l a cereamica – ha concluso Vittorio Borelli, presidente di Confindustria ceramica – dopo Germania e Francia. Abbiamo in dogana dazi tra l’8,5% e il 10%, oltre a controlli fitosanitari sugli imballaggi. Speravamo nel Ttip. Ma oggi sembra ancora più lontano».
LE IMPRESE Marenzi: area strategica per l’abbigliamento Borelli: siamo già delusi per non aver chiuso il Ttip Mosconi: arredo distintivo