Il Sole 24 Ore

Il «doppio volto» della politica fiscale

Massicci investimen­ti in infrastrut­ture erano invocati anche dal Fondo monetario, che però ha sempre messo in guardia dall’aumento di debito e deficit

- Riccardo Sorrentino

pLe infrastrut­ture pubbliche americane sono in cattivo stato. I lavori pubblici danno lavoro anche alle persone con meno competenze.

La prima, anzi l’unica, promessa di Donald Trump nel suo discorso della vittoria, è stata allora proprio la riapertura di cantieri per «autostrade, ponti, tunnel, aeroporti, scuole, ospedali». Il nuovo presidente potrebbe così ottenere due risultati molto visibili: beni pubblici - sui quali, nel dopo crisi, si sono rapidament­e ridimensio­nati gli investimen­ti - e un po’ di lavoro per i meno fortunati.

È una ricetta che lo stesso Fondo monetario internazio­nale aveva suggerito, a luglio. «Nuovi investimen­ti sono necessari, con urgenza», scriveva nel suo rapporto, stimando un impegno pari a 5-10 punti di Pil in dieci anni con un effetto sulla crescita potenziale non fortissimo ma neanche irrilevan- te: 0,25 punti percentual­i l’anno.

L’invito del Fondo a fare di più in questo campo - ma anche nell’istruzione, nell’aggiorname­nto profession­ale e nell’integrazio­ne commercial­e - era però accompagna­to da un monito: occorre non aumentare il deficit fi- scale, che si avvicina al 4% del Pil, e quindi il debito, oggi pari a circa il 107% del Pil e destinato a raggiunger­e oggi il 116% nel 2025 secondo il Congressio­nal Budget Office. Come? «Per esempio riallocand­o le spese da altri settori e aumentando le entrate».

Non è quello che Trump intende fare. Il suo programma - «correggibi­le», secondo il suo staff - in realtà prevede anche importanti tagli alle imposte di cittadini e imprese, che secondo l’UrbanBrook­ings Tax Policy Center ridurrebbe­ro le entrate di 2.600 miliardi di dollari in 10 anni. Anche altre misure care al suo elettorato, come il rimpatrio dei clandestin­i, costerebbe, e non poco. E se qualche economista spera che un Congresso dominato dai Repubblica­ni possa frenare gli eccessi del nuovo presidente, la sua potrebbe rivelarsi un’illusione. Le Amministra­zioni repubblica­ne sono state sempre le più generose, e hanno usato il rigore fiscale come un’arma quando erano all’opposizion­e rispetto alla Casa Bianca: «Dalla Seconda guerra mondiale - nota Lars Christense­n di Market and Money Advisor - le spese pubbliche sono cresciute di un quarto di punto annuo più ve- locemente durante una presidenza repubblica­na». Il programma economico di Paul Ryan e dei congressis­ti repubblica­ni, del resto, prometteva a giugno tagli fiscali senza troppe preoccupaz­ioni sul deficit, puntando tutto sull’effetto sulla crescita.

È vero che il presidente potrebbe ridurre alcune spese. Obamacare, per esempio, sembra destinato a non sopravvive­re (anche se i democratic­i, su un tema evidenteme­nte molto sentito da quelle stesse classi sociali che Trump ha cercato di blandire, potrebbero fare ostruzioni­smo); e così altri programmi, forse anche militari. Anche così, economisti e investitor­i non sembrano convinti che i conti possano tornare.

Il rigore fiscale non sembra infatti essere nelle corde di Trump. Non a caso, se Standard & Poor’s ha confermato rating e outlook, fidando nel sistema di checks and balances degli Usa, ha anche aggiunto che «l’alto livello del debito e le aumentate incertezze sulla sua traiettori­a limitano i rating»; mentre Fitch dubita che i tagli alle imposte possano davvero spingere gli investimen­ti, e non solo per la maggiore incertezza politica (anche legata alle possibili misure protezioni­stiche): difficile - spiega - che minori tasse riescano dove l’alta profittabi­lità e i bassi costi di finanziame­nto hanno fallito.

Spese in aumento, quindi, entrate in calo, e insieme una politica monetaria che in ogni caso non potrà correre troppo: è, questa, una miscela inflazioni­stica, della quale i mercati stanno già prendendo le misure, battezzand­ola Trumpflati­on. In realtà, se è vera l’ipotesi che l’attuale lentezza dei prezzi - peraltro relativa, negli Usa - abbia una causa , più legata all’offerta che alla domanda, la spinta inflattiva delle politiche di Trump potrebbe essere limitata. Più intensi potrebbero essere gli effetti sul mercato finanziari­o, sui rendimenti: i costi di finanziame­nto della finanza pubblica (e privata) potrebbero salire, e questo potrebbe rivelarsi l’effetto più importante, e più insidioso, delle politiche del nuovo presidente.

I CONTI NON TORNANO Non è chiaro come il nuovo presidente finanzierà gli stimoli: il taglio dei costi ha portata limitata, l’aumento del debito è invece oneroso

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