Il «doppio volto» della politica fiscale
Massicci investimenti in infrastrutture erano invocati anche dal Fondo monetario, che però ha sempre messo in guardia dall’aumento di debito e deficit
pLe infrastrutture pubbliche americane sono in cattivo stato. I lavori pubblici danno lavoro anche alle persone con meno competenze.
La prima, anzi l’unica, promessa di Donald Trump nel suo discorso della vittoria, è stata allora proprio la riapertura di cantieri per «autostrade, ponti, tunnel, aeroporti, scuole, ospedali». Il nuovo presidente potrebbe così ottenere due risultati molto visibili: beni pubblici - sui quali, nel dopo crisi, si sono rapidamente ridimensionati gli investimenti - e un po’ di lavoro per i meno fortunati.
È una ricetta che lo stesso Fondo monetario internazionale aveva suggerito, a luglio. «Nuovi investimenti sono necessari, con urgenza», scriveva nel suo rapporto, stimando un impegno pari a 5-10 punti di Pil in dieci anni con un effetto sulla crescita potenziale non fortissimo ma neanche irrilevan- te: 0,25 punti percentuali l’anno.
L’invito del Fondo a fare di più in questo campo - ma anche nell’istruzione, nell’aggiornamento professionale e nell’integrazione commerciale - era però accompagnato da un monito: occorre non aumentare il deficit fi- scale, che si avvicina al 4% del Pil, e quindi il debito, oggi pari a circa il 107% del Pil e destinato a raggiungere oggi il 116% nel 2025 secondo il Congressional Budget Office. Come? «Per esempio riallocando le spese da altri settori e aumentando le entrate».
Non è quello che Trump intende fare. Il suo programma - «correggibile», secondo il suo staff - in realtà prevede anche importanti tagli alle imposte di cittadini e imprese, che secondo l’UrbanBrookings Tax Policy Center ridurrebbero le entrate di 2.600 miliardi di dollari in 10 anni. Anche altre misure care al suo elettorato, come il rimpatrio dei clandestini, costerebbe, e non poco. E se qualche economista spera che un Congresso dominato dai Repubblicani possa frenare gli eccessi del nuovo presidente, la sua potrebbe rivelarsi un’illusione. Le Amministrazioni repubblicane sono state sempre le più generose, e hanno usato il rigore fiscale come un’arma quando erano all’opposizione rispetto alla Casa Bianca: «Dalla Seconda guerra mondiale - nota Lars Christensen di Market and Money Advisor - le spese pubbliche sono cresciute di un quarto di punto annuo più ve- locemente durante una presidenza repubblicana». Il programma economico di Paul Ryan e dei congressisti repubblicani, del resto, prometteva a giugno tagli fiscali senza troppe preoccupazioni sul deficit, puntando tutto sull’effetto sulla crescita.
È vero che il presidente potrebbe ridurre alcune spese. Obamacare, per esempio, sembra destinato a non sopravvivere (anche se i democratici, su un tema evidentemente molto sentito da quelle stesse classi sociali che Trump ha cercato di blandire, potrebbero fare ostruzionismo); e così altri programmi, forse anche militari. Anche così, economisti e investitori non sembrano convinti che i conti possano tornare.
Il rigore fiscale non sembra infatti essere nelle corde di Trump. Non a caso, se Standard & Poor’s ha confermato rating e outlook, fidando nel sistema di checks and balances degli Usa, ha anche aggiunto che «l’alto livello del debito e le aumentate incertezze sulla sua traiettoria limitano i rating»; mentre Fitch dubita che i tagli alle imposte possano davvero spingere gli investimenti, e non solo per la maggiore incertezza politica (anche legata alle possibili misure protezionistiche): difficile - spiega - che minori tasse riescano dove l’alta profittabilità e i bassi costi di finanziamento hanno fallito.
Spese in aumento, quindi, entrate in calo, e insieme una politica monetaria che in ogni caso non potrà correre troppo: è, questa, una miscela inflazionistica, della quale i mercati stanno già prendendo le misure, battezzandola Trumpflation. In realtà, se è vera l’ipotesi che l’attuale lentezza dei prezzi - peraltro relativa, negli Usa - abbia una causa , più legata all’offerta che alla domanda, la spinta inflattiva delle politiche di Trump potrebbe essere limitata. Più intensi potrebbero essere gli effetti sul mercato finanziario, sui rendimenti: i costi di finanziamento della finanza pubblica (e privata) potrebbero salire, e questo potrebbe rivelarsi l’effetto più importante, e più insidioso, delle politiche del nuovo presidente.
I CONTI NON TORNANO Non è chiaro come il nuovo presidente finanzierà gli stimoli: il taglio dei costi ha portata limitata, l’aumento del debito è invece oneroso