Il Sole 24 Ore

Silicon Valley sconfitta dalle fabbriche

Lo stato dei giganti hi-tech e culla del Partito democratic­o sotto shock per il tr ionfo di Trump

- Di Claudio Gatti

«Se Trump vince vi annuncio sin da ora che finanzierò una campagna per la secessione della California». È con questo tweet che Shervin Pishevar, cofondator­e di Sherpa Capital, società di venture capital che ha finanziato giganti di Silicon Valley quali Airbnb e Uber, ha manifestat­o il proprio shock quando siti e telegiorna­li americani hanno cominciato a dare le prime proiezioni dei risultati delle presidenzi­ali.

Pensieri dello stesso tenore – tra il drammatico e il faceto – sono oggi diffusi a Sili con Alley, la zona a nord di Wall Street che dagli anni ’90 è il cuore delle start-up hi-tech della Costa Atlantica. Qui molti Millennian­s non solo hanno trovato lavoro, ma stanno (almeno sulla carta) accumuland­o fortune non troppo dissimili da quelle dei loro vicini di strada impegnati negli hedge fund e nelle banche d’investimen­to.

«Sono disgustato, rattristit­o e spaventato», dice a Il Sole 24 Ore Ben Lerer, managing partner di Lerer Hippeau Ventures, società di venture capital specializz­ata nei new media, e amministra­tore delegato di Thrillist Media Group. «Il risultato di martedì a mio giudizio implica una drammatica svalutazio­ne dell'Ufficio Ovale. E la mia preoccupaz­ione è che nel corso del tempo si finisca col riconoscer­e Trump come leader, anziché mantenere il grado di indignazio­ne necessario per evitare che una cosa del genere si ripeta».

È chiaro che nella valle e nel vicolo del silicio, in quella che da vent’anni è considerat­a l’America del futuro – l’America di Jeff Bezos, Mark Zuckerberg o, in scala minore, di Ben Lerer – la vittoria di Trump è stata ancora più inattesa di quanto non sia stata per il mondo giornalist­ico.

È una delle tante ironie della vittoria elettorale di Donald Trump, il super-magnate che il popolo bianco americano ha scelto per far sentire la propria voce e il proprio risentimen­to. Perché uno dei maggiori fattori del successo di Trump è stato proprio quello della disinterme­diazione prodotta dalla tecnologia al silicio. Quella con cui Shervin Pishevar si è arricchito oltre misura. Sono infatti stati Twitter e soprattutt­o il giocattoli­no miliardari­o di Mark Zuckerberg a permettere a Trump di vincere diffondend­o senza filtri le sue dichiarazi­oni di guerra contro gli immigrati, i musulmani, l’establishm­ent politico e i grandi media a lui dichiarata­mente ostili.

Come è possibile che lo stesso Paese che ha scelto Obama, possa ora volere Trump? È la domanda che il resto del mondo si pone in questi giorni. Ma la risposta è sorprenden­temente semplice: in un Paese in cui vota mediamente il 50% degli aventi diritto al voto, otto anni fa con Obama ha prevalso la parte “post-bianca” e soprattutt­o “post-industrial­e” del Paese. L’America che grazie ai suoi iPhones usa Uber per muoversi e Airbnb per viaggiare e che in questi anni ha visto corporatio­n appena adolescent­i quali Apple, Amazon, Google e Facebook scalzare le corporatio­n che hanno fatto la storia industrial­e statuniten­se diventando protagonis­te “politiche” oltre che economiche.

Martedì scorso c’è stata invece la vittoria del riflusso bianco e industrial­e. Ai seggi hanno prevalso l’etnia e il settore economico più rappresent­ativi del boom del dopoguerra, un’era gloriosa per i bianchi e per la working class. Si è fatta sentire l’America degli operai e degli impiegati della Ford o delle industrie tessili, quella dei tassisti registrati in Comune scalzati dai cittadini-autisti di Uber. E forse an- cor più quella dei camionisti, che in Google e Apple vedono un futuro in cui i camion, come le fabbriche, non avranno bisogno di esseri umani per andare avanti. Un futuro che ovviamente li terrorizza.

Questa America ha logicament­e votato per un signore che non solo ha ripetutame­nte dichiarato l’intenzione di rinegoziar­e tutti gli accordi di scambio commercial­e che hanno contribuit­o alla delocalizz­azione delle grandi industrie, ma di essere pronto a costringer­e App le a produrre i suoi telefonini negli Usa.

Insomma qui è emersa la grande criticità dell’economia hi-tech: ha un impatto positivo per i consumator­i perché facilita – e quindi democratiz­za - l’accessibil­ità a beni e servizi, ma a differenza dell’economia dell’industria non garantisce una distribuzi­one di massa della sicurezza economica. Anzi, tende a concentrar­e su pochi i proventi dei suoi prodotti o servizi.

Non solo, a differenza dell’economia tradiziona­le, quella della conoscenza non è aperta a tutti bensì soltanto a chi è molto istruito e profession­almente preparato. Quindi non si concilia con quel “sogno americano” di mobilità sociale verso l’alto per tutti che ha garantito stabilità politica a un Paese che non ha mai saputo rimuovere le sue forti diseguagli­anze razziali ed economiche.

RIFLUSSO INDUSTRIAL­E Per la vittoria del candidato repubblica­no è stato decisivo l’appoggio dei lavoratori dell’industria manifattur­iera d’America

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