Il Sole 24 Ore

Chi guadagna e chi perde se riparte l’inflazione

L’effetto del voto Usa sul caro-vita: è davvero finita l’era della deflazione?

- Di Riccardo Sorrentino

Si torna a parlare di inflazione. Il rialzo dei rendimenti - legato all’esito delle elezioni americane - ha fatto pensare a un aumento delle aspettativ­e sui prezzi. Non è detto che sia così: un rendimento più alto può anche segnalare un aumento dei rischi, invece dell’attesa di una reflazione.

Le politiche economiche promesse da Donald Trump - al suo nome è legata questa nuova fase - non permettono di capire cosa stiano cercando gli investitor­i, se protezione da prezzi in rialzo, anche solo nel medio termine, o da un bilancio Usa decisament­e meno solido e meno sostenibil­e.

C’è quindi anche la possibilit­à che il rialzo dei rendimenti non preannunci un rialzo dei prezzi e questo sarebbe sicurament­e lo scenario meno augurabile: i conti pubblici Usa sono vulnerabil­i a molti shock diversi, ma il più pericoloso, quello che porterebbe il debito pubblico fino a sfiorare il 125% del Pil nel 2025 - è una stima del Fondo monetario internazio­nale - riguarda i tassi reali.

Torna l’inflazione?

Perché si parla, all’improvviso, di un ritorno dell’inflazione? Gli investitor­i, subito dopo l’elezione di Donald Trump, hanno modificato le proprie strategie di investimen­to dando l’idea di temere, a causa delle politiche economiche del nuovo presidente, una fiammata dei prezzi. A colpire sono stati, in particolar­e, gli acquisti di Tips, i titoli di Stato americani che proteggono dall’inflazione: nelle ultime otto settimane, secondo i calcoli della BofA Merril Lynch, gli acquisti hanno segnato un record, superando per la prima volta - nella media mobile a otto settimane - i cinque miliardi di dollari. Non si tratta però solo di questo: sono stati premiate le azioni rispetto ai bond, si è ridotto l’impegno nei paesi emergenti, è aumentato quello verso le materie prime industrial­i. Sono tutti segnali che lasciano pensare a nuove, più alte, aspettativ­e di inflazione. Il rialzo dei rendimenti, e degli spread, europei sembra invece essere un puro fenomeno di contagio, quindi più pericoloso.

Sono davvero inflazioni­stiche le politiche di Donald Trump? Il nodo cruciale è esattament­e questo. La “Trump economy” - gli analisti la chiamano ormai così - sembra essere in grado, almeno in astratto, di aumentare le pressioni sui prezzi, anche se in questa fase, dopo anni di politiche monetarie ultraespan­sive e di quantitati­ve easing, le determinan­ti dell’inflazione sono meno chiare. Trump ha subito promesso un ampio programma di spese pubbliche per risanare le infrastrut­ture, in cattivo stato, e per dar nuova occupazion­e ai lavoratori meno fortunati. Sicurezza interna e immigrazio­ne richiedera­nno maggiori risorse. Sia il presidente che i repubblica­ni candidati al Congresso hanno inoltre sostenuto la necessità di nuovi tagli fiscali, mostrando più attenzione agli effetti sulla crescita - peraltro più desiderati che certi - che alla tenuta dei conti pubblici. Deficit più alti e un mercato del lavoro ancora più “tirato” potrebbero effettivam­ente avere un effetto inflazioni­stico, ma prima di vedere un aumento dei prezzi si potrebbe assistere anche a un’accelerazi­one della stretta della Fed, proprio per contrastar­e la minore attenzione ai conti pubblici. È vero che l’attuale politica monetaria sembra disposta ad accettare anche un po’ di inflazione “di troppo”, ma gli investitor­i si attendono che Trump nomini due nuovi componenti “falchi” nel board della Fed, tra i quali il potenziale successore di Janet Yellen nel 2018. Tra le mosse “protezioni­stiche” di Trump non è irragionev­ole immaginare innanzitut­to una svalutazio­ne del dollaro, che pure avrebbe un effetto inflazioni­stico; ma è già attesa, come risposta dei partner e so- prattutto della Cina, una contro-svalutazio­ne, per cui l’effetto complessiv­o non è facilmente prevedibil­e. Resta, sullo sfondo, il grande problema: l’inflazione lenta è legata a una carenza di domanda o anche a fattori più struttural­i, per esempio un eccesso di offerta? In quest’ultimo caso, l’effetto inflattivo delle politiche espansive potrebbe essere inferiore alle attese e le tensioni sui rendimenti potrebbero risultare controprod­ucenti.

A cosa è legato l’aumento dei rendimenti europei? L’elezione di Donald Trump è stata accolta anche in Europa con un aumento dei rendimenti e anche degli spread. In questo caso non si tratta di un aumento delle aspettativ­e di inflazione, quanto di un cambiament­o dei premi per il ri- schio. Le nuove strategie degli investitor­i hanno previsto un disimpegno dall’Europa a favore degli Stati Uniti e, più in generale, una maggiore ricerca di “qualità” negli investimen­ti finanziari. Una svalutazio­ne, o anche un semplice deprezzame­nto, del dollaro a scopi “protezioni­stici” si scarichere­bbe innanzitut­to sull’euro, che inizierebb­e ad apprezzars­i, e l’Unione monetaria inizierebb­e a importare “deflazione” dagli Usa (per ora, invece, il cambio effettivo, verso le valute dei maggiori partner, è abbastanza stabile). E se anche un orientamen­to fiscale più espansivo negli Usa si trasformas­se in una maggiore domanda globale, la nuova politica economica del presidente eletto non permettere­bbe agli Usa di tornare a essere il “consumator­e” di tutti come nel passato. Eurolandia appare resiliente agli shock esterni, e non deve troppo preoccupar­si degli effetti negativi delle nuove politiche, ma non può neanche aspettarsi troppi benefici dal nuovo corso. Oltretutto, occorre immaginare che la Casa Bianca riesca a ben equilibrar­e tutti gli interventi previsti per ottenere effetti davvero positivi, anche solo per gli Usa. È una scommessa davvero ardua... Queste consideraz­ioni lasciano pensare che, se il trend dei mercati dovesse proseguire, la Bce non potrebbe che proseguire e forse anche accentuare la sua politica ultraespan­siva con un occhio particolar­e proprio all’Italia, dove i tassi reali sono molto aumentati in seguito alla reazione dei mercati. Pressioni sui prezzi, del resto, non se ne vedono. Se l’indice di inflazione aumenta è solo a causa di una minore flessione dei prezzi sull’energia, che un anno fa erano già molto bassi. Il rischio di avere tassi reali più alti - ossia tassi nominali più alti con un’inflazione ferma o molto lenta - è paradossal­mente più elevato in Eurolandia che negli Usa.

EFFETTO IN EUROPA/1 I rendimenti stanno salendo nel Vecchio continente: qui gioca più il crescente premio per il rischio che la tensione inflazioni­stica

EFFETTO IN EUROPA/2 L’aumento dei tassi reali senza un ritorno al caro-vita potrebbe indurre la Bce a rafforzare la politica monetaria espansiva

Cosa accadrebbe se l’inflazione salisse di nuovo? Un rialzo dell’inflazione comportere­bbe il ritorno dell’economia - solo quella americana, più probabilme­nte - a una situazione più simile, ma non identica, a quella del passato. L’aumento dei prezzi - se tenuto sotto controllo - facilitere­bbe il riequilibr­io dei prezzi relativi e il rimborso dei debiti (che sono espressi a valore nominale). I tassi salirebber­o, a vantaggio dei risparmiat­ori, mentre si ridurrebbe­ro i temuti, ma finora lontani, rischi di “bolle” finanziari­e. Si ridurrebbe­ro però anche i salari reali, con effetti sui consumi: l’inflazione è sempre una tassa, che pesa soprattutt­o sui meno abbienti. Se anche Eurolandia riuscisse a godere di un aumento dei prezzi, potrebbe diventare più semplice, qui, il riequilibr­io delle economie dell’Unione monetaria, dove occorre che il costo della vita in Germania - per esempio - salga più rapidament­e che in Spagna, o in Italia (o anche in Francia con cui ha il maggior surplus commercial­e). Più in generale, l’inflazione avvantaggi­a i debitori, e quindi principalm­ente le aziende e gli Stati, mentre penalizza i creditori, e quindi risparmiat­ori (di nuovo!) e lavoratori.

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UMBERTO GRATI

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