Il Sole 24 Ore

L’aiuto che serve ai «senza fissa dimora»

Più attenzione per questo frutto amaro della «cultura dello scarto»

- Di Nunzio Galantino

Un modo per riportare al centro dell’attenzione un altro frutto amaro della cultura dello scarto. Non so se vi riuscirò nei prossimi giorni ma, mentre scrivo, non riesco a distinguer­e tra i “senza fissa dimora” che si aggirano per le nostre città, quelli … classici e i senza dimora resi tali dal terremoto. Comunque sia, sono ancora tanti gli ultimi! Ne sentiamo spesso parlare come se fossero numeri, ma dietro nascondono storie faticose. Alcune attraversa­te da segni di speranza. Altre segnate invece, per un motivo o per un altro, da una sorda disperazio­ne. Lo so, sono due realtà diverse tra loro ma unite da analoghe difficoltà. Papa Francesco, guardando a chi è senza una casa, chiede di non distoglier­e lo sguardo dalle loro difficoltà. Un invito rivolto alle istituzion­i e che interroga anche i privati cittadini.

Ho sentito anche io tremare la terra domenica mattina, 30 ottobre. Ho avvertito il terremoto e la mia mente, per un istante interminab­ile, si è chiesta: chissà dove è localizzat­o, chissà dove farà danno, chissà dove porterà distruzion­e. Per un attimo mi ha attraversa­to il pensiero che il terremoto si fosse spostato dalle zone già duramente colpite dal sisma nei mesi precedenti e nei giorni precedenti. Nello stesso attimo ho avuto il timore che il terremoto avesse colpito sempre le stesse zone dell’Italia Centrale. In ogni caso è apparso subito chiaro che sarebbe stata una domenica difficile e triste. Soprattutt­o ho capito che in fondo non aveva importanza il luogo del terremoto, perché ovunque colpisca e qualunque luogo incontri, il terremoto procura perdite. Perdita di persone, innanzitut­to ma anche perdita di identità, di radici, di ricordi, di luoghi fino a quel momento vissuti come familiari, quali sono le pareti della casa.

Una terremotat­a del Belice – che deve la sua vita a un rifiuto (l’ospitalità negata presso la casa del nonno, crollata la notte del 15 gennaio del 1968) - è sopravviss­uta al terremoto ma, in un elenco lungo di perdite, ripete spesso di avere perso le fotografie della sua infanzia. Cosa vuoi che siano le fotografie, se sostituite alla vita? Nulla e su questo siamo tutti d'accordo. Anche lei lo è. Ma le fotografie, gli oggetti cari – per lei, come per tutti noi – le pareti della propria camera, le porte che scegli di lasciare aperte o chiuse, sono simboli della perdita di regolarità, di quotidiani­tà, di serenità, di sicurezza. Anche questo è sentirsi ridotto a essere un “senza dimora”.

Fra le tante parole ascoltate in questi giorni mi ha colpito la testimonia­nza di una signora che avendo perso la casa e, dormendo all’aperto, ha raccontato di svegliarsi ogni mattina con i primi raggi del sole. Il giornalist­a le ha chiesto se fra i tanti disagi non ci fosse anche quello di essere disturbata nel sonno e la signora con una semplicità toccante ha risposto che «la luce, l’alba era vissuta come una liberazion­e, perché dopo aver vissuto il terremoto si ha paura del buio». Dopo il terremoto non si vuole più dormire, si preferisce rimanere vigili, all’erta per… scappare, per essere consapevol­i della propria sorte.

Il terremoto è terrore. Per chi ne è vittima è il terrore della morte. Per i sopravviss­uti è il terrore della vita. Una vita che non sembra più sicura perché non è in grado di proteggerc­i dentro le mura domestiche, dentro le nostre chiese; una vita che stenta a scorrere secondo quanto progettato o quanto “costruito” da ciascuno. Si fa fatica ad abituarsi al terrore, si fa fatica a convivere con i boati che precedono la scossa di terremoto. Si fa fatica. È la stessa fatica che si fa nel lasciare i propri luoghi per cercare riparo presso amici (e, credetemi, ci sono tanti esempi di solidariet­à e di accoglienz­a!), presso strutture messe a disposizio­ne dalle associazio­ni e dalle istituzion­i pubbliche.

La terremotat­a del Belice racconta che il nonno non definiva mai la baraccopol­i dove ha vissuto successiva­mente – e per circa 30 anni dal terremoto – paese. Il paese era quello terremotat­o. E la sua immaginazi­one, da bambina, correva e pensava a come era la casa del nonno: chissà come era il paese. Le baracche, i container, le new town, non sostituisc­ono le strade, i vicoli, la storia di un luogo. Il paese – anche se ricostruit­o – non è più il Paese. Nelle baracche, nei container, non ci sono barriere tra il fuori e il dentro,

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