L’attualità di Einaudi con il suo «conoscere per deliberare»
Gentile Carrubba, grazie al suo saggio incoraggiamento (si veda la sua risposta sul Sole del 9 ottobre) ho intrapreso una meticolosa perlustrazione del testo di riforma costituzionale. Numerosi stati d’animo contradditori, come la spontanea euforia emersa prendendo atto che l’eliminazione del bicameralismo paritario e l’introduzione del provvedimento legislativo “a data certa” consentirebbero di mandare in pensione anticipata la malsana prassi di legiferare con il classico strumento anti-parlamentare quale il decreto legge, e di consentire lo sviluppo delle “autostrade del Parlamento”. La necessaria intuizione di mettere ordine nel titolo V con una specifica divisione di competenze tra Stato centrale e Regioni non può che portare giovamento, ma nello stesso tempo il governo centrale saprà ben sostituirsi alle sue «tradizionali sentinelle (Regioni) del territorio»? Avrà occhi e orecchie sensibili per raccogliere le esigenze dei territori? Concludo chiedendomi ancora: la clausola di supremazia esercitabile sulle rimanenti materie (pochine, in verità) da parte dello Stato centrale non può compromettere l’acquisizione di un diritto e dei suoi relativi effetti, reveniente da un’iniziativa legislativa regionale già in essere? Sto basando la mia analisi su un progetto di riforma costituzionale finalizzato a modificare lo status quo, e fino a questo punto abbiamo ordine e logica, ma per avere un giusto raffronto (sì e no) ho bisogno di analizzare una controproposta da parte di coloro che sostengono il no, ma è qui che purtroppo si interrompe il mio impegno per “mancanza di nuova materia prima costituzionale”. O forse è lo status quo (l’attuale costituzione) a fungere da contro-proposta da parte di chi sostiene il no? Penso di essermi infilato in un vicolo cieco, ma non mi arrendo!
Gianluca Caldironi
Bellaria (Rimini) Non c’è che dire: il senso civico dimostrato dal lettore è esemplare. E, personalmente, mi sento responsabile dell’impegno al quale l’ho sospinto: l’Einaudi del “conoscere per deliberare” apprezzerebbe, anche perché, oggi, la tendenza, piuttosto, è seguire chi urla di più e, soprattutto, chi espone idee che già siamo sicuri di condividere.
Ora, indefesso, il mio interlocutore mi chiede come approfondire le ragioni del “no”, per definire finalmente un verdetto ben ponderato. In giro, materiale a favore del “no” non manca; mi posso limitare a consigliare qualche lettura: per esempio, “Perché no”, di Marco Travaglio e Silvia Truzzi, edizioni Paper First; o, sul lato avverso, “Italia, si cambia. Identikit della riforma costituzionale”, di Giovanni Guzzetta, edito da Rubettino.
Ma con la sua osservazione finale mi pare che il lettore abbia colto un punto importante: che le ragioni del “no” stanno principalmente nella difesa a oltranza dell’attuale testo della Costituzione, non nello sforzo di migliorare la riforma (la cui approvazione non impedirebbe comunque eventuali, futuri aggiornamenti). È una posizione rispettabilissima, ma saldamente ancorata a uno spirito (con- clamato) di pura conservazione, che non affronta le ragioni per cui, da più di trent’anni, stiamo cercando di modificare la Costituzione: non nella parte in cui vengono proclamati i princìpi, ma in quella in cui si definiscono i meccanismi di rappresentanza e di governo, che non mi pare scandaloso possano essere adeguati di quando in quando. Ma qui, i testi non servono; e il lettore, dopo averli utilmente compulsati, dovrà fare l’ultimo sacrificio: una notte di riflessione per decidere a cosa attribuire la priorità.
Il sogno infranto
Il 4 novembre 2008 Barack Obama veniva eletto presidente degli Usa. Per alcuni aspetti si possono accomunare la sua presidenza con quella di Franklin Roosevelt, che negli anni 30 affrontò la grave recessione seguita alla crisi del 1929. Quando si insediò nel 1933, i disoccupati erano un quarto della forza lavoro: oggi il tasso di disoccupazione è solo del 7%, in crescita di due punti in soli otto mesi. Sia Obama che Roosevelt sono succeduti a presidenti screditati: da una parte il repubblicano Herbert Hoover, che non aveva valutato la gravità della recessione, si preoccupò solo del pareggio di bilancio, convinto che fosse compito dei singoli Stati risolvere la disoccupazione e il fallimento delle banche, dall’altra la presidenza Bush, che ha garantito otto anni di sviluppo solo per pochi, una guerra per troppi e una crisi finanziaria devastante. Così nei confronti di Obama vi sono state forti aspettative, ma il bilancio del suo mandato non è esaltante. Il popolo si attendeva un piano anti-crisi, magari con una riedizione del New Deal: attesa non ripagata dai fatti.
Lettera firmata
Monfalcone (Gorizia)