Leonard Cohen, la poesia fatta musica
C’è stato un tempo in cui anche i poeti, per arrivare lontano, dovevano imbracciare una chitarra. Merito di Bob Dylan che, chitarra in braccio, aveva dimostrato al mondo che una canzone può farsi letteratura e, 50 e passa anni dopo, avrebbe portato a casa il premio Nobel. In quegli anni 60 dalle innumerevoli rivoluzioni, in tanti facevano il percorso opposto, partendo dalla letteratura per arrivare alla forma canzone, dalla cultura “alta” a quella popolare.
Uno su tutti: Leonard Cohen, poeta e romanziere canadese prestato alla canzone d’autore che ci lascia all’età di 82 anni, 22 album pubblicati tra lavori in studio e live ma soprattutto un’influenza sull’immaginario collettivo impossibile da calcolare. La musica era il suo “piano b” perché, fosse dipeso da lui, avrebbe continuato a fare lo scrittore. Ne aveva il pedigree: nativo di Montréal, concittadino e quasi coetaneo di Mordecai Richler, con il quale condivideva anche le origini ebraiche, studiò alla McGill University e trascorse gli anni 50 tra un reading e l’altro, come usava ai tempi dei Beat. Le prime pubblicazioni in versi, poi il mito dell’Europa da scoprire che lo porta sull’isola greca di Hydra, dove ha una convivenza turbolenta con Marianne, donna che ispirerà più di una sua composizione e alla quale rimarrà idealmente legato per tutta la vita. Pubblica i romanzi Il gioco preferito (1963) e Belli e perdenti (1967), ha una grande presa su intellettuali engagé del Greenwich Village ma non sfonda. La chiave di volta gliela dà Judy Collins, folksinger immortalata da Crosby, Stills & Nash in Suite: Judy Blue Eyes che lo incoraggia a imbracciare la chitarra e a mettere in musica le sue poesie. Ad aspettarlo c’è la Columbia, casa discografica che ha in Dylan il proprio diamante più prezioso: l’esordio Songs of Leonard Cohen (1967) agli occhi dei posteri sarà anche una pietra miliare contenente capolavori assoluti come Suzanne e So long Marianne, ma nell’anno di Sgt. Pepper vende pochissimo. Il grande salto arriverà con il successivo Songs from a room e la delicatissima Bird on the Wire, poi la consacrazione di Songs of Love and Hate (1971) dove medita sul tradimento in Famous blue raincoat. Sperimenta nella direzione di sonorità più sofisticate con Death of a Ladies’ Man (1977), prodotto da un certo Phil Spector, poi negli anni Ottanta incontra un certo successo di pubblico grazie a Various Positions (1984) e I’m your man (1988).
Non gli basta: il demone della depressione lo morde forte e allora trova rifugio nel buddismo, trascorrendo buona parte degli anni 90 nel monastero di Mount Blady in California, dove nel 96 viene ordinato monaco con il nome di Jikan (“Silenzioso”). Per paradosso, mentre è assente, riesce ancora più presente: merito di Jeff Buckley che reinterpreta la sua Hallelujah trasformandola nell’inno della Generazione X. Il ritorno sulle scene sarà dettato da motivi contingenti: la manager gli porta via 5 milioni di dollari, ne nasce una lunga causa e allora meglio il palco e la sala d’incisione. Non ha pubblicato tanto, non ha venduto tantissimo (il disco dei record è il recente Old ideas, terzo in classifica Billboard), né si è arricchito: Celebrity net worth stima il suo patrimonio in appena 20 milioni di dollari, non una cifra enorme se consideriamo la popolarità della sua arte. Lo chiamavano “poeta laureato in pessimismo”. Lui obiettava: «Penso a un pessimista come a qualcuno che sta aspettando la pioggia. Io mi sento bagnato fino alle ossa».