Il Sole 24 Ore

Il dolore senza fine di una città

Domani Hollande e i parenti delle vittime ricorderan­no i 130 morti delle stragi

- Di Marco Moussanet

Quando hanno visto il sangue sulle pietre e sul cemento, le sedie e i tavoli rovesciati, le borse, le scarpe, le giacche di chi è riuscito a scappare, le vetrine forate di proiettili. Quando hanno iniziato a trasformar­e i dehors della normalità perduta in santuari. Coprendoli di fiori, di messaggi, di disegni, di candele.

Come già avevano fatto dieci mesi prima, all’angolo della stradina che portava alla sede di Charlie Hebdo. Con la differenza che allora pensavano – volevano pensare, volevano convincers­i – che fosse un episodio. Aiutati dal fatto che la follia omicida degli uomini neri della jihad aveva colpito un obiettivo preciso, peraltro da tempo nel mirino dell’estremismo islamico.

Mentre questa volta hanno sparato nel mucchio. Contro un modo di vive- re, contro la libertà di tutti. Contro gli occidental­i infedeli usciti a bere una birra, a guardare una partita di calcio, ad assistere a un concerto. Per alimentare una paura diffusa, per far capire che nessuno potrà mai più sentirsi al sicuro, per suscitare il sospetto e la diffidenza. Perché ci fosse un prima e un dopo gli attacchi di Parigi.

Di questo si rendono conto i francesi e i parigini all’alba del 14 novembre. Che la barbarie si è ormai installata nella civiltà. E che nulla sarà mai più come prima. Nonostante la solidariet­à, nonostante la voglia di stringersi gli uni agli altri, nonostante la capacità di rialzarsi e ripartire.

L’orrore è iniziato alle 21.27 della sera prima, una sera tiepida come se non fosse stato novembre, ma aprile. Quando tre kamikaze si fanno saltare in aria, azionando le loro cinture esplosive e facendo una vittima, davanti allo Stade de France. Dove 80mila persone, tra cui il presidente François Hollande, stanno assistendo all’incontro amichevole tra le nazionali francese e tedesca. Dove avrebbero potuto ammazzare centinaia di persone, ma miracolosa­mente non sono riusciti a entrare.

Pochi minuti dopo entra in azione un altro gruppo del commando. All’angolo tra le strade Alibert e Bichat – a un passo dal Canal Saint-Martin e dalla folla che riempie le banchine – tre uomini escono da una Seat nera e sparano contro i clienti del Carillon, un caffé di quartiere, e il ristorante asiatico Le Petit Cambodge. Sparano con dei kalashniko­v, il cui rumore secco nessuno aveva mai sentito, e uccidono quindici persone.

Risalgono in auto, percorrono 200 metri e sparano di nuovo. Nel dehors della Bonne Bière, all’angolo tra Rue de la Fontaine-au-Roi e Faubourg-duTemple, appena dietro Place de la République, falciano cinque clienti. Poi di nuovo via, verso la Belle Equipe, tra Charonne e Faidherbe, dove un gruppo di amici sta festeggian­do un compleanno nel locale gestito da un ebreo e una musulmana. I kalashniko­v sputano altri proiettili: 19 morti.

Poco più tardi uno dei tre terroristi si fa esplodere nel déhors del Comptoir Voltaire, alla Rue de Montreuil. Sarà identifica­to come Brahim Abdeslam. Fratello del Salah Abdeslam che faceva anch’esso parte del gruppo e che è fuggito senza portare a termine la missione che probabilme­nte gli era stata affidata con l’attacco in un altro quartiere della capitale. Arrestato nell’ormai tristement­e famoso quartiere Molenbeek di Bruxelles, è l’unico sopravviss­uto del commando ed è in carcere a Fleury-Merogis, dove si rifiuta di parlare. Gli altri due “assassini dei dehors”, tra cui l’organizzat­ore materiale degli attacchi Abdelhamid Abaaud, vengono uccisi dalle forze speciali della polizia il 18 a Saint-Denis.

Ma l’orrore di quella maledetta serata non è ancora finito. Tutt’altro. Alle dieci una terza squadra della morte, anch’essa composta da tre terroristi, fa irruzione al Bataclan, la sala di Boulevard Voltaire dove circa 1.500 persone stanno assistendo al concerto degli Eagles of Death Metal. Sparano a raffica sulla gente, gettano delle granate. Gli spettatori si preci-

Una serie di attacchi terroristi­ci di matrice islamica semina morte e terrore a Parigi. Gli attentati allo Stade de France

in alcuni caffè e al Bataclan causano la morte di 130 persone, fra le quali la studentess­a italiana Valeria Solesin pitano verso le uscite di sicurezza. Chi riesce a fuggire a volte viene accolto in case vicine, dove rimane tutta la notte. Come succedeva appunto ai tempi della guerra. Il massacro dura quasi due ore, prima che i poliziotti riescano a eliminare i terroristi. I morti sono 90.

Intanto Hollande è apparso in tv. Parla di rinforzi militari, di stato di emergenza, di chiusura delle frontiere, di un consiglio dei ministri straordina­rio che sta per iniziare. La gente che segue attonita le dirette televisive è invitata a non uscire di casa.

Ma è ancora il momento dello shock, dell’adrenalina che gira, dello stupore e dell’incredulit­à. Sembra quasi che non sia vero, che sia un film, che una cosa simile non possa accadere nella propria città, nella capitale di un grande Paese occidental­e, nella strada dietro casa. E invece è tutto vero. Come i parigini potranno constatare di persona il mattino dopo. Quando inizia il tempo del dolore freddo, del lutto, del tentativo di capire e razionaliz­zare qualcosa che è quasi impossibil­e capire e razionaliz­zare.

Domani mattina Hollande, insieme ai sindaci di Parigi e di Saint-Denis, ripercorre­rà le strade della morte. In ognuno dei luoghi colpiti verrà scoperta una targa, verranno letti i nomi delle vittime, verrà deposta una corona e verrà osservato un minuto di silenzio. Per ricordare le 130 persone uccise. Con il pensiero rivolto anche, forse soprattutt­o, a chi resta. Ai parenti delle vittime – le madri, i padri, le mogli e i mariti, i figli, i compagni e gli amici – e alle centinaia di feriti. Decine dei quali sono ancora in ospedale, continuano a subire interventi chirurgici, seguono corsi di rieducazio­ne e sedute di psicoanali­si. Alcuni non hanno più ripreso il lavoro, hanno paura a uscire di casa, tremano come foglie al vento quando sentono lo scoppio di un petardo o la sirena di un’ambulanza.

Mentre la città e un intero Paese, che hanno brutalment­e e improvvisa­mente scoperto di essere fragili e vulnerabil­i, continuano a interrogar­si: perché? Perché dal buio di un altro mondo, che non conosciamo e che pure esiste, sbucano uomini con le nostre stesse fattezze, ma capaci di trasformar­si in mostri, rubando la vita a tanti innocenti?

L’OBIETTIVO Gli attacchi allo stadio, ai caffè e alla sala da concerto hanno preso di mira un modo di vivere, hanno ricordato che la barbarie oggi vive a fianco della civiltà

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