Le elezioni Usa spingono i listini
Nuove prospettive di crescita e inflazione hanno spinto il dollaro e schiacciato i bond
I mercati sono pragmatici e hanno trovato in fretta il lato positivo dell’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti. Come al solito —e a maggior ragione se i fatti che muovono i listini hanno la bandiera americana — è stata Wall Street a decretare la svolta ottimistica, perché le Borse europee e asiatiche avevano iniziato il day after in caduta. Del resto era pensiero comune che le azioni sarebbero state favorite dalla vittoria di Hillary Clinton, vicina alla lobby finanziaria, mentre quella di Trump avrebbe creato volatilità per la sua politica protezionistica e la scarsa considerazione da parte della nomenclatura, anche all’interno del suo partito. Invece l’S&P500 ha guadagnato l’1,4% in una seduta, dopo molte sessioni negative interrotte solo dall’ipotesi del vantaggio democratico.
Gran parte della ritrovata propensione al rischio si deve probabilmente alla stabilità potenziale del Congresso, in mano ai repubblicani; però la motivazione non convince del tutto, visto che un tale potere era temuto fino a poche ore prima. Piuttosto, l’entusiasmo può derivare da un’analisi più interessata del programma di Trump, che promette stimoli fiscali, paradossalmente favorevoli ai profitti delle società quotate e meno al ceto medio-basso che l’ha votato.
Nuove prospettive di crescita e inflazione hanno così spinto il dollaro e schiacciato i prezzi dei titoli di Stato Usa per adeguare al rialzo i rendimenti (inversamente proporzionali ai prezzi), e hanno esportato il moto pure nel Vecchio Continente; per il momento, le rassicurazioni a caldo degli esponenti della Banca centrale europea sulla possibile estensione delle manovre straordinarie tramite gli acquisti di obbligazioni, che sostengono le quotazioni, non hanno avuto effetti: il Bund tedesco, dapprima acquistato come bene rifugio, ha invertito la rotta e giovedì (alla chiusura di Plus24) i rendimenti sono saliti in zona 0,3%, come non accadeva dall’aprile scorso; le vendite non hanno risparmiato i titoli di Stato più deboli e il tasso del BTp è rimbalzato dall’1,7% vicino al 2%, come sei mesi dopo l’avvio del bazooka della Bce. Solo i mercati emergenti, penalizzati dal dollaro forte che pesa sui debiti, hanno ceduto. Ma le reazione sono tutte da testare, insieme all’arte del governo di Trump.