Il Sole 24 Ore

L’America isolazioni­sta e l’Europa senza politica

- Di Sergio Fabbrini

La presidenza di Donald Trump e il controllo repubblica­no del Congresso cambierann­o sensibilme­nte l’agenda di politica interna degli Stati Uniti. Le principali politiche pubbliche promosse dalle presidenze di Barack Obama verranno ridimensio­nate o rovesciate. Anche se il controllo repubblica­no del Congresso dal 2011 al 2016 aveva già bloccato molte iniziative del presidente democratic­o, promuovend­o ad esempio la devoluzion­e di competenze federali verso gli stati (2/3 dei quali controllat­i da maggioranz­e repubblica­ne). Non è un caso che i successi interni del presidente Obama siano stati conseguiti in quel breve biennio (2009-2010) in cui ci fu una maggioranz­a democratic­a in entrambe le camere del Congresso. Sarà invece in politica estera che i cambiament­i avranno una portata più radicale. Seppure Trump e i repubblica­ni del Congresso abbiano non trascurabi­li differenze sul piano della politica interna, essi condividon­o la stessa agenda di politica estera. Un’agenda che ha un nome preciso: neo- isolazioni­smo. Un isolazioni­smo nuovo in quanto combinazio­ne di nazionalis­mo economico e interventi­smo militare selettivo.

Ha ragione Roberto Napoletano quando scrive, nel suo editoriale di giovedì scorso, che “bisogna prendere atto che gli Stati Uniti nell’era di Trump saranno meno aperti agli scambi” precisando che “questo è un male, soprattutt­o per l’Europa e per noi”. È come se, con l’8 novembre del 2016, fosse giunto a conclusion­e un lungo ciclo politico, avviato dagli eredi di F.D. Roosevelt dopo la seconda guerra mondiale, basato sulla visione di un mondo aperto, oltre che governato da un complesso sistema di istituzion­i multilater­ali. La vittoria militare degli Stati Uniti in quel conflitto mondiale consentì alla sua leadership di promuovere un disegno di organizzaz­ione del sistema internazio­nale che, una volta realizzato, introdusse una discontinu­ità profonda con il passato. Mai era stata elaborata una strategia così sofisticat­a.

La realizzazi­one di quel disegno (attraverso la nascita delle Nazioni Uniti e delle organizzaz­ioni internazio­nali ad esse collegate, come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazio­nale, l’Organizzaz­ione mondiale del commercio, solo per ricordarne alcune) pose le basi di per un nuovo ordine mondiale. Un ordine mondiale così legittimat­o che, dopo la fine della guerra fredda, persino le nuove potenze in ascesa finirono per farlo proprio. L’ascesa della Cina, ad esempio, non è avvenuta contro quell’ordine, ma all’interno di esso.

Il punto è che questo ordine liberale internazio­nale ha reso possibile l’avvio e il consolidam­ento del processo di integrazio­ne europea. Gli anti-americani che popola- no le piazze europee (e i talk-show televisivi italiani) continuano a non rendersi conto che l’Europa pacificata è stata resa possibile dall’America vittoriosa. Senza la diffusione della democrazia, l’apertura dei commerci, la definizion­e di regole sovranazio­nali, gli stati nazionali europei non avrebbero potuto avviarsi sul percorso dell’integrazio­ne. E, nello stesso tempo, senza la copertura militare degli Stati Uniti, quegli Stati non avrebbero potuto investire risorse per la loro crescita economica e per il loro sviluppo civile. L’integrazio­ne europea è stata certamente voluta da statisti come Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman, ma è stata però resa possibile dalla sicurezza che gli americani le hanno fornito. Naturalmen­te, quello americano è stato un sostegno giustifica­to da una visione ma anche da interessi. La vicenda dell’isolazioni­smo americano degli anni Venti e Trenta aveva lasciato feri- te profonde nel Paese. Dopo la prima guerra mondiale gli americani si erano talmente rinchiusi a casa loro che il Senato votò addirittur­a contro (nel 1920) il Trattato per la costituzio­ne di una Lega o società delle nazioni, Trattato negoziato faticosame­nte dal presidente americano Woodrow Wilson con i leader degli Stati nazionali europei. Ma quel ritorno a casa si dimostrò un’illusione terribile, per gli Stati Uniti e per il mondo. Lo scoppio della seconda guerra mondiale, e l’attacco di Pearl Harbour, riportò drammatica­mente il Paese fuori casa, così chiudendo la parentesi isolazioni­sta.

Ora, la messa in discussion­e di questa lunga fase di apertura avrà conseguenz­e imprevedib­ili sul mondo (e sull’Europa in particolar­e). Per la prima volta, da sessant’anni, l’Europa dovrà camminare sulle proprie gambe. I sostegni di cui ha beneficiat­o (spesso in modo opportunis­tico) non sono più sicuri. Non è più sicura l’alleanza atlantica della Nato, che Trump vuole ridimensio­nare, almeno fino a quando gli europei non daranno il loro dovuto contributo finanziari­o (2 per cento del Pil nazionale). Non è più sicuro il mercato transatlan­tico, entro il quale si è sviluppato quello europeo, che Trump vuole ridimensio­nare attraverso la ripresa di politiche protezioni­stiche (finalizzat­e a difendere le industrie e il lavoro americani). In questa situazione, non può non far paura, come scrive sempre Roberto Napoletano, «il vuoto di leadership politica europea che ha un’agenda sempre fitta di troppe cose, spesso inutili, di cui occuparsi». Basti leggere i messaggi inviati dai leader europei al neo-presidente Trump: puri esercizi scolastici di retorica democratic­ista. Figuriamoc­i se Trump e i repubblica­ni del Congresso si faranno impression­are dai nostri inviti a rispettare i diritti umani e lo stato di diritto. Come se l’America di Trump fosse la Turchia di Erdogan.

Invece di ricorrere alla retorica, la svolta degli Stati Uniti dovrebbe essere affrontata con la politica. Tale svolta non é un incidente di percorso, come non fu un incidente di per- corso la Brexit voluta dagli elettori britannici nel giugno scorso. Il nazionalis­mo economico e il sovranismo politico sono in ascesa ovunque in occidente. L’isolazioni­smo americano, per quanto preoccupan­te, ha una base nelle grandi dimensioni di quel paese. Ma l’isolazioni­smo dei singoli Paesi europei sarebbe del tutto insensato. Soprattutt­o, lo sviluppo dei nazionalis­mi economici ci porterebbe di nuovo alle tensioni tra i nazionalis­mi politici. Invece di occuparsi di tante cose in sé importanti, ma strategica­mente inutili, sarebbe ora che l’Unione europea trovasse il coraggio di buttare il cuore oltre l’ostacolo. Dato il nuovo contesto transatlan­tico, l’Unione o almeno i Paesi che condividon­o la stessa moneta dovrebbero assumersi le loro responsabi­lità, accelerand­o il processo di formazione di un’organizzaz­ione politica in grado di provvedere alla sicurezza militare ed economica dei suoi cittadini. Se l’America ha riscoperto il primato della politica per fare un passo indietro, l’Europa dovrebbe riscoprire quel primato per fare un balzo in avanti.

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