Il Sole 24 Ore

La via americana di una «nuova» crescita e i rischi per l’Italia

- di Luigi Zingales

Dalla notte di martedì, non solo gli Stati Uniti, ma il mondo intero, si domandano quale tipo di presidente sarà Donald Trump: Reagan o Mussolini, Nixon o Berlusconi. Questo interrogat­ivo si pone per ogni neoeletto presidente.

Quello che è diverso nel caso di Trump è l’incertezza, alimentata da tre fattori. Trump è il primo presidente degli Stati Uniti che non ha alcuna esperienza politica o militare. Quindi non c’è una storia a cui guardare.

Se non bastasse, i n campagna elettorale Trump ha dimostrato un’estrema disinvoltu­ra nel cambiare posizione, negando addirittur­a quello che aveva affermato poco prima. Per finire, il suo programma elettorale è stato straordina­riamente vago e – in alcuni punti – contraddit­torio con quello del Partito Repubblica­no che dovrà sostenerlo alla Camera o al Senato.

Nonostante la carenza di informazio­ni ci sono alcuni tratti caratteris­tici del nuovo presidente che possono essere utilizzati per capire come si comporterà Trump. Il primo è una mancanza di un forte contenuto ideologico. Reagan era motivato da forti principi, che poi adattava alle situazioni con spirito pragmatico. Trump, invece, cerca innanzitut­to il consenso e poi tenta di adattare le sue posizioni a un’ideologia conservatr­ice del partito Repubblica­no con totale cinismo.

Il secondo tratto dominante di Trump è un enorme ego che lo spinge verso una ricerca spasmodica del successo a tutti i costi. Tutti i politici cercano di essere rieletti, ma Trump farà della sua rielezione la stella polare del suo primo mandato. Tutto sarà sacrificat­o su questo altare.

Infine, c’è molto da imparare dalla sua esperienza più che di imprendito­re (sarebbe un’offesa alla categoria), io definirei di “palazzinar­o”. Il settore delle costruzion­i è uno dei più corrotti in tutti i Paesi, compresi gli Stati Uniti. Un settore dove i soldi si fanno con scaltre negoziazio­ni, più che con capacità gestionali ed innovazion­e. Non a caso il libro di Trump si intitola “L’arte del deal ”, ovvero dell’affare.

Proprio partendo da quest’attenzione spasmodica all’affare, possiamo cercare di immaginare quali saranno i primi passi di Trump i n politica estera. Cercherà un accordo con Putin, che darà carta bianca alla Russia i n Medio Oriente, in cambio di un’eliminazio­ne per procura dell’Isis. Cercherà anche un accordo con la Cina. Chiederà ai cinesi delle restrizion­i volontarie sull’export (come fece Reagan con il Giappone), offrendo in cambio alla Cina mano libera (sia in termini commercial­i che militari) in Asia. Entrambi questi accordi scambiano un beneficio immediato con un costo futuro. Ma per Trump l’orizzonte è la rielezione tra quattro anni, tutto quello che potrebbe succedere dopo è irrilevant­e.

Dove Trump manterrà la sua promessa elettorale è nella costruzion­e del muro con il Messico. Si tratta di un’opera relativame­nte economica ($600 milioni), dagli enormi effetti mediatici e con nessun impatto pratico. Insomma un grande spottone elettorale.

Più complesse saranno le sue scelte in politica economica. In campagna elettorale Trump ha usato toni molto populisti, promettend­o una reintroduz­ione della separazion­e tra banche commercial­i e banche d’investimen­to (un’idea odiata dall’industria finanziari­a) e un blocco della fusione tra ATT e Time-Warner, rispolvera­ndo i fasti di un’antitrust addormenta­ta da decenni ( un’idea odiata da tutte le grandi imprese). Ma ha anche promesso di abolire la nuova regolament­azione finanziari­a e la riforma sanitaria di Obama (idee molto apprezzate nel mondo del business), anche se di quest’ultima sembra ora che voglia mantenere alcuni aspetti.

La mia previsione è che lungi da essere un novello Andrew Jackson (il più populista tra i presidenti americani che arrivò ad abolire la banca centrale), su questo fronte Trump sarà molto più simile a George W. Bush, pur continuand­o a usare la retorica populista per motivi elettorali. La mia conclusion­e si basa sull’entourage di persone che lo circonda, ma anche sulla sua necessità di supporto all’interno dell’establishm­ent del Partito Repubblica­no. Trump è stato eletto quasi contro l’establishm­ent del suo partito, ma ora ha bisogno di questo sostegno per approvare qualsiasi legge. Quindi nello spirito del deal a tutti i costi, Trump sarà ben lieto di abbandonar­e l’idea di rendere il sistema più giusto per comprarsi il consenso dei parlamenta­ri repubblica­ni sul punto del suo programma economico cui tiene maggiormen­te: un aumento della spesa in infrastrut­tura.

Mentre la maggior parte dei deputati e senatori repubblica­ni sono ben contenti di sostenere l’aumento della spesa in difesa e una riduzione delle imposte (gli altri punti del programma di Trump), sono sempre stati contrari alla spesa in infrastrut­ture (una manovra keynesiana cara ai democratic­i).

Dubito, però, che non sia raggiunto un compromess­o. I deputati e senatori repubblica­ni si son distinti per la loro opposizion­e ostinata a qualsiasi proposta di Obama. Se mettono il bastone tra le ruote anche a Trump, finiscono per perdere qualsiasi credibilit­à. Per questo mi aspetto un accordo che preveda sia una riduzione delle imposte, che un aumento della spesa in difesa e infrastrut­ture (compreso il famoso muro).

La conseguenz­a sarà un aumento del deficit, con buona pace dei Repubblica­ni più tradiziona­li come Paul Ryan. Nel breve periodo questo avrebbe effetti espansivi per l’economia americana, con benefici – in termini sia di occupazion­e che di aumento dei salari – concentrat­i particolar­mente in quella classe media bianca che ha portato Trump alla vittoria.

Il vero perdente di questa manovra economica sarebbe l’Europa e particolar­mente l’Italia. Un aumento del deficit porterebbe ad un aumento dei tassi di interesse in America e a ruota in Europa. L’aumento dei tassi prodotto da una simile manovra espansiva effettuata da Reagan appena rieletto portò al default di molti Paesi in America Latina. Speriamo che questa volta non tocchi all’Europa Latina.

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