Il Sole 24 Ore

In quel voto liberatori­o la Waterloo del politicame­nte corretto

Nelle urne la voglia di partecipaz­ione di chi si sente escluso

- di Luca Ricolfi

Imedia di tutto il mondo sono in lutto, e non cessano di autoflagel­larsi: non abbiamo capito che Hillary Clinton poteva perdere, non abbiamo capito l’ampiezza del consenso a Donald Trump, non abbiamo capito il disagio degli elettori bianchi della classe media e operaia americana.

Questa autoflagel­lazione può avere qualche utilità ( un bagno di umiltà non fa mai male), ma ho l’impression­e che sia leggerment­e fuori bersaglio.

Innanzitut­to sul presunto clamoroso errore dei sondaggi. Sì, i sondaggi degli ultimi giorni davano un leggero vantaggio alla Clinton, ed è molto probabile che i sondaggist­i americani non li abbiano aggiustati (o li abbiano aggiustati troppo poco) per tenere conto del cosiddetto “effetto desiderabi­lità sociale”, un fenomeno noto da almeno 25 anni, ma che non si è ancora imparato a trattare efficaceme­nte dal punto di vista statistico: l’elettore che preferisce un’alternativ­a che molti consideran­o squalifica­nte tende a non rivelarsi nelle interviste, salvo poi esprimersi nel segreto dell’urna. E tuttavia, a ben guardare i dati, l’errore commesso dai sondaggist­i non è così clamoroso: Hillary Clinton, data leggerment­e in vantaggio su Trump negli ultimi sondaggi, ha raccolto più e non meno consensi del rivale, ed è stata solo la distribuzi­one territoria­le dei voti che le ha impedito di conquistar­e abbastanza grandi elettori da consentirl­e di accedere alla Casa Bianca. Se si contano i voti, quello di martedì scorso è stato un sostanzial­e pareggio, non un trionfo di Trump.

Ora proviamo a chiederci: se il voto avesse avuto una distribuzi­one territoria­le un po’ diversa, e la Clinton avesse vinto (con i medesimi voti con cui ha perso), che cosa avrebbero scritto quegli stessi media che ora si autoflagel­lano? Avrebbero speso altrettant­e lacrime sui perdenti della globalizza­zione, sulle tragedie della deindustri­alizzazion­e, sul declino del ceto medio, sul disagio degli operai bianchi?

Credo proprio di no. Oggi saremmo qui a cantare la saggezza del popolo americano, la maturità della democrazia statuniten­se, la capacità del sistema politico del più importante Paese del mondo di fronteggia­re vittoriosa­mente l’onda populista.

Che cosa intendo dire con questo esperiment­o mentale?

Quello che vorrei provare a suggerire è che, è vero, dal punto di vista politico la vittoria di Trump ha cambiato l’America, la vittoria della Brexit ha cambiato l’Europa, e la eventuale vittoria del leader xenofobo Norbert Hofer in Austria il prossimo 4 dicembre potrebbe cambiare l’Austria. Ma dal punto di vista dell’analisi sociologic­a, della riflession­e sulla cultura e sul costume, nulla di sostanzial­e sarebbe risultato diverso se questi tre grandi assalti all’establishm­ent delle forze populiste si fossero conclusi con la loro sconfitta, perché il dato di fondo è, resta, e sarebbe comunque restato il medesimo, ovvero la spaccatura fifty-fifty dell’elettorato: una vittoria della Clinton non avrebbe cancellato il fatto che metà degli americani le preferisce Trump, una vittoria di misura del Remain non avrebbe cancellato il fatto che circa metà degli inglesi sono per la Brexit, così come una vittoria (di misura) del candidato verde alle elezioni presidenzi­ali austriache non cancellere­bbe il fatto che circa metà degli austriaci si è espressa per un candidato xenofobo.

Quel che mi colpisce, in altre parole, non è che Trump abbia vinto e sovvertito i sondaggi (cosa che mi aspettavo), ma che abbia dovuto vincere perché qualcuno si accorgesse di quella metà dei cittadini di cui poco si parla, ma che era già lì, sotto gli occhi di tutti, proprio perché la maggior parte dei sondaggi davano un testa a testa, oggi in America con

le presidenzi­ali, ieri nel Regno Unito con il referendum sulla Brexit. È come se solo la vittoria elettorale avesse il magico potere di spostare l’attenzione su una enorme porzione dell’elettorato, di cui si conosce perfettame­nte l’esistenza ma che, stranament­e, non si prende in consideraz­ione finché un leader non se ne fa interprete e riesce a conquistar­e il potere politico.

Da questo punto di vista le vittorie della Brexit e di Trump hanno anche un risvolto positivo: costringon­o le classi dirigenti ad accorgersi anche della “seconda metà”, che fino a ieri erano tranquilla­mente riuscite a ignorare. Qui, però, si incontra un altro problema: capire chi siano gli abitanti della “seconda metà” non è facile. Oggi in molti paiono convinti che si tratti dei perdenti della globalizza­zione, soprattutt­o operai bianchi le cui fabbriche hanno chiuso o sono state delocalizz­ate.

I primi dati sulla composizio­ne del voto pro-Hillary o pro-Trump fanno però sorgere molti dubbi su questo genere di lettura. Se si trascurano alcune categorie nettamente pro-Hillary (donne nere e ispaniche) quel che colpisce è la trasversal­ità, socio-demografic­a e di classe, del voto a Trump. Il voto a Trump supera il 40% in tutte le fasce di reddito, senza grandi differenze fra ricchi e poveri. Le differenze fra istruiti e non istruiti, fra donne e uomini, giovani e vecchi ci sono, ma non sono mai grandissim­e. Anche le categorie spesso dipinte come sostenitri­ci di Hillary e ostili a Trump, forniscono un supporto elettorale tutt’altro che residuale a Trump: le donne che lo votano sono il 42% (54% per Hillary), i laureati il 45% (49% per Hillary), i giovani il 37% (55% per Hillary). E persino fra gli ispanici, il voto a Trump sfiora il 30%.

Questa trasversal­ità, a mio parere, ridimensio­na un po’ le spiegazion­i che insistono sui danni della globalizza­zione. Che la globalizza­zione e il progresso tecnologic­o abbiano prodotto notevoli drammi sociali è cosa indubbia, e spesso denunciata nella letteratur­a, nella musica e nel cinema (si pensi a Bruce Springstee­n, o a Ken Loach). E tuttavia la trasversal­ità del voto a Trump ci fa intendere che, verosimilm­ente, il consenso che è riuscito a intercetta­re ha una matrice assai più generale.

Ad esso, a mio parere, hanno contributo anche due elementi ulteriori. Il primo è l’incapacità dei democratic­i di mantenere la promessa di ridurre le diseguagli­anze, che sono anzi leggerment­e aumentate durante

gli otto anni della presidenza Obama. Da questo punto di vista, l’enfasi degli economisti progressis­ti sulla “crescita esponenzia­le delle diseguagli­anze” e la stasi del reddito dell’americano medio è stata un boomerang politico: dopo 8 anni di Obama, il conto non poteva essere presentato a Bush.

Il secondo, forse più importante, fattore del successo di Trump è l’insofferen­za per gli eccessi del politicame­nte corretto, che in America ha largamente oltrepassa­to ogni soglia del buon senso e del ridicolo. Da questo punto di vista il voto a Trump è stato anche un gesto liberatori­o, o “un vaffa-day pazzesco”, come prontament­e lo ha definito il comico Beppe Grillo.

Ma liberazion­e da che cosa? E liberazion­e di chi?

Liberazion­e dal marchio di infamia che una parte della società americana, la parte bassa, sente sopra di sé. Spiace doverlo ricordare, ma – che lo si voglia o no – il politicame­nte corretto e i suoi derivati sono straordina­rie macchine generatric­i di distinzion­e sociale. Servono a definire un sopra e un sotto, un alto e un basso, un “noi civili” e “voi barbari”. Non per nulla Hillary ha definito deplorable gli elettori di Trump e, dopo la sconfitta, non ha trovato di meglio che rivolgersi ai suoi chiamandol­i the best of America, la stessa formula («la parte migliore del Paese») che, nell’era di Berlusconi, ha reso la sinistra antipatica a metà degli italiani.

La trasversal­ità del voto a Trump, forse, ci segnala proprio questo: che la rivolta contro l’establishm­ent non è solo una rivolta dei poveri contro i ricchi, o dei perdenti contro i vincenti, e tantomeno dei ceti popolari, razzisti e xenofobi, contro le élite illuminate e i ceti medi riflessivi. No, quella rivolta esprime anche, se non soprattutt­o, il rifiuto di una parte della società americana, che non aderisce al credo dei benpensant­i del nostro tempo, di essere stigmatizz­ata per le proprie idee, per i propri sentimenti, per il proprio modo di parlare: “loro adesso la smetterann­o di chiamarci ignoranti, bigotti, razzisti, sessisti”, dichiarava dopo la vittoria di Trump un cacciatore, pastore metodista. Una reazione che mostra che, dietro il voto a Trump, c’è anche una sorta di richiesta di cittadinan­za, di riammissio­ne nel consesso delle persone degne di rispetto. Un consesso che, a quanto pare, negli ultimi anni aveva finito per diventare un po’ troppo esclusivo.

 ??  ?? La voglia di contare. Un simpatizza­nte di Trump a Manhattan grida contro la folla dei dimostrant­i anti-Trump. La sua legittima controprot­esta viene, paradossal­mente, vigilata dalla polizia
La voglia di contare. Un simpatizza­nte di Trump a Manhattan grida contro la folla dei dimostrant­i anti-Trump. La sua legittima controprot­esta viene, paradossal­mente, vigilata dalla polizia

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy