Il Sole 24 Ore

Un’alternativ­a al bancocentr­ismo

- di Carmine Fotina

Come goccia che scava la roccia da quattro anni, a partire dal decreto crescita del 2012, gli interventi di politica economica del governo stanno cercando di ridurre la dipendenza delle imprese dal credito bancario.

Un complicato corteggiam­ento al mercato dei capitali che - tra regolament­i non attuati, vincoli europei, incentivi che non attraggono e domanda inaspettat­amente pigra - è ancora in fase embrionale. La sensazione, con il pacchetto di novità inserite nella legge di bilancio, è che si cerchi adesso di compiere un salto di qualità coinvolgen­do protagonis­ti istituzion­ali finora rimasti ai margini.

Da un lato le casse previdenzi­ali e i fondi pensione (con gli sgravi sugli investimen­ti nell’economia reale), dall’altro le assicurazi­oni (nel ruolo di soggetti istruttori dei Pir) e l’Inail (con la norma per gli investimen­ti in startup). Con molta probabilit­à sono proprio questi soggetti il tassello mancante, i protagonis­ti senza i quali la fuga del risparmio verso strumenti esteri potrebbe essere una storia senza fine. Le stime indicano ad esempio investimen­ti delle assicurazi­oni in fondi di debito/credito per 6,9 miliardi, ma quasi integralme­nte in direzione estero. L’Aifi (associazio­ne per la finanza di impresa) calcola in particolar­e che tra il 2013 e il 2015 l’ammontare investito dalle assicurazi­oni in fondi di credito italiano superi di poco 120 milioni di euro.

Ed è tutt’altro che una disquisizi­one su una presunta responsabi­lità nazionale. È piuttosto un problema di strumenti per attrarre questo tipo di investitor­i che finora erano assenti o quasi. Lo stesso parziale o forse meglio sarebbe dire mancato successo dei minibond si presta a un’analoga chiave di lettura perché, nonostante cedole medie generose, resta un mercato per definizion­e illiquido, approcciat­o da fondi chiusi e sul quale non si sono cimentati gli operatori istituzion­ali.

C’è indubbiame­nte molta strada da percorrere. La stessa platea dei fondi di credito italiani, tra regolament­i da attuare e un probabile rischio di nanismo al confronto degli omologhi dei grandi Paesi Ue - che in Europa, per inciso, hanno raccolto quasi 37 miliardi in un triennio - è un grande cantiere aperto.

Solo quando tutti i singoli capitoli saranno stati scritti potremo giudicare e anche le imprese, che in questo disegno rappresent­ano la domanda, devono dimostrare di cambiare passo strutturan­dosi con strumenti adeguati alla nuova offerta sul mercato e aprendosi a interlocut­ori diversi dal tradiziona­le direttore di banca. Ne va della crescita interna: le aziende interessat­e da operazioni di private equity in un triennio hanno aumentato il fatturato del 3,2% contro l’1,8% delle altre (dati Intesa Sanpaolo), con un Ebitda margin di quasi il 10% contro il 7% e una quota di presenza sui mercati esteri superiore di 10 punti percentual­i.

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