Futuro incerto per il commercio
Proseguono le proteste anti-Trump - Ma i veterani si schierano con lui
pScene da un’America ancora divisa. Proteste con decine di migliaia di dimostranti si sono estese ad almeno 37 città da una costa all’altra, cuore del voto antiTrump. Chiedono al presidente eletto di rimangiarsi una retorica elettorale denunciata come razzista, misogina e bigotta. Vogliono ricordargli, spesso pacificamente anche se non manca qualche episodio di violenza, di aver vinto sì nettamente il voto presidenziale, ma perso, di mezzo milione, il voto popolare. E si ripetono ormai da tre giorni, trascinandosi nella notte e fino all’alba, con nuove marce ieri in serata a New York, Los Angeles e Chicago, nate da adesioni via Facebook che hanno superato le centomila persone.
Ma ci sono anche le manifestazioni di supporto. Dei veterani nel fine settimana festivo a loro dedicato che, con un margine di due a uno superiore persino a quello dell’eroe di guerra John McCain nel 2008, sono stati tra le sue “constituency” più fedeli. E ci sono i media, quali il New York Times, che fanno penitenza per il fallimento nel prevedere l’esito delle urne, imbarcandosi in viaggi nel cuore del Paese, nella Pennsylvania di Wilkes-Barre, travolta dalla fuga di lavoro, e non di Philadelphia.
A questa America in affanno, scossa e confusa, si è rivolto ieri il presidente uscente, Barack Obama. Il suo discorso del sabato, in occasione del Veteran’s Day, è stato privo di appelli apertamente politici, ma ricco di toni che trovano eco nella sfida odierna e nella necessità di superare le tensioni. Si è rivolto ai veterani per celebrare il fatto che le forze armate sono uno degli esempi più nitidi della capacità di essere uniti anche in circostanze drammatiche. Un esempio, è il messaggio, che il Paese può e deve seguire. «Un esercito che affronta ogni missione, una squadra unita, tutti che si prendono cura di tutti, che guardano le spalle all’altro». L’istituzione nazionale «con la maggior diversità, che rappresenta ogni angolo del Paese, ogni colore dell’umanità, americani da sempre e immigrati, cristiani, musulmani, ebrei, atei, tutti impegnati in un servizio comune».
Ma le dimostrazioni sono rimaste il sintomo più visibile oggi delle divisioni. Da New York ad Atlanta, da Dallas a Portland, da Los Angeles a Orlando, da Denver a Columbus, sono state bloccate strade e autostrade, a volte danneggiate auto e vetrine di negozi tra arresti e scaramucce con le forze dell’ordine. A Portland, nella notte, una sparatoria ancora da chiarire: un manifestante è rimasto ferito da colpi di arma da fuoco apparentemente sparati da un afroamericano dopo una lite.
L’interrogativo, in questo clima, è la leadership di Trump, la sua promessa post-elettorale di essere presidente di tutti gli ame- ricani, di superare ogni provocazione e conquistare una legittimità superiore a quella delle urne. Una promessa che vede la sua squadra di governo in via di definizione come cartina di tornasole. In gioco ci sono 15 ministeri e mille posizioni di alto e medio livello. E la scelta per poltrone delicate quali chief of staff, segretario al Tesoro, di Stato e alla Difesa rivelerà l’equilibrio tra pragmatismo ed estremismo. I due candidati a capo di gabinetto sono forse il caso più eclatante: Reince Priebus, favorito e capo del partito repubblicano, è considerato un politico moderato. Steve Bannon, il chairman della campagna elettorale, rappresenta l’anima radicale di destra. Il vicepresidente Mike Pence è inoltre emerso come estremamente influente, alla guida del team di transizione accanto alla famiglia di Trump. Pence è uomo di partito, ma anche esponente delle sue correnti ultra-conservatrici.