Il Sole 24 Ore

Ma l’export dà lavoro a 12 milioni di americani

- Di Gianluca Di Donfrances­co

Se davvero nell’agenda di Donald Trump ci fosse un’America più protezioni­sta, la già debole ripresa mondiale avrebbe vita ancor più grama. Con il loro costante e crescente deficit commercial­e, quasi raddoppiat­o tra il 1999 e il 2015 a quota 500 miliardi di dollari, gli Stati Uniti offrono una stampella insostitui­bile all’economia globale. Nel 2015, l’Unione Europea ha piazzato oltre-atlantico il 21% dei beni e servizi esportati, per un valore di 371,3 miliardi di euro, in crescita del 19% rispetto all’anno precedente, e con un attivo commercial­e di 122 miliardi di euro. Alla flebile economia italiana, l’export negli Stati Uniti ha regalato una boccata d’ossigeno da 36 miliardi di euro.

Un irrigidime­nto della posizione commercial­e di Washington, che non ha bisogno dello strumento dei dazi per concretizz­arsi, ma potrebbe esprimersi attraverso le barriere non-tariffarie (regolament­i, licenze, norme fito-sani- tarie), sarebbe accompagna­to da una reazione uguale e contraria dei partner, con un’ulteriore frenata del commercio mondiale, già quanto mai debole: per il 2016 la Wto prevede una crescita dell’1,7%, inferiore a quella del Pil per la prima volta dal 2001 (escluso l’annus horribilis del 2009).

Un’America più mercantili­sta non sarebbe però automatica­mente un’America più ricca. È su questa banale constatazi­one che si basano le previsioni (e le speranze) di chi punta su un Trump presidente molto diverso dal Trump candidato. Il peso dell’interscamb­io commercial­e (import-export di beni e servizi) nell’economia statuniten­se non ha fatto che crescere dagli anni 50 in poi, passando da meno del 10% del Pil nell’immediato dopoguerra al 30% attuale (dato Ocse 2014). Non una cifra esorbitant­e, anzi: da questo punto di vista, gli Stati Uniti sono il Paese meno allacciato ai flussi commercial­i nella classifica Ocse, e quindi quello che più potrebbe permetters­elo, puntando sull’enorme mercato interno (per l’Italia l’interscamb­io vale il 56% del Pil, per la Germania l’85%).

Tuttavia, il dipartimen­to del Commercio statuniten­se stima che i quasi 2.300 miliardi di dollari di esportazio­ni made in Usa danno lavoro a 11,7 milioni di persone, il 26% delle quali sono nel settore manifattur­iero e il 24% nell’agricoltur­a. Oltre 300mila imprese vendono beni e servizi sui mercati internazio­nali e per il 98% si tratta di aziende con meno di 500 addetti.

Il Nafta - per Trump il «peggiore degli accordi nella storia degli Stati Uniti» - consente alle imprese americane 3 miliardi di dollari al giorno di operazioni commercial­i con i partner in Canada e Messico. A renderle possibili è l’integrazio­ne delle catene del valore, grazie all’eliminazio­ne dei dazi e a regolament­i chiari e stabili. Azzerare quel trattato, avvisa William Watson del Cato Institute, le danneggere­bbe gravemente, ma a rimetterci non sarebbe solo il Messico.

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