La strada accidentata del consensus globale
Èmolto diverso un mondo dove lentamente si procede comunque verso un accordo globale, rispetto a un mondo dove l’istanza nazionale prevale fino a bloccare il processo di globalizzazione. È molto diverso un mondo in cui i Paesi devono decidere se lasciare invariati o abbassare i dazi doganali o se introdurre o meno vincoli alle emissioni di anidride carbonica, rispetto a un mondo dove la scelta è tra lo status quo e aumentare i dazi o liberalizzare il diritto ad inquinare. Il primo è un lento progresso verso un equilibrio globale condiviso (rimango dove sono o divento più integrato). Il secondo è una ritirata individualistica e distruttiva, un regresso globale (rimango dove sono o mi isolo). Con Trump, il mondo occidentale è probabilmente scivolato dal primo al secondo percorso, da quello del progresso a quello del regresso globale. La decisione di Obama di venerdì di non chiedere al Congresso americano la ratifica della Trans Pacific Partnership (Tpp), un pilastro della sua politica economica globale, significa che la strada verso il consenso globale è per ora definitivamente interrotta.
In occidente la globalizzazione era già in crisi profonda. La resistenza ad ulteriori avanzate negli accordi commerciali, le levate di scudi contro gli immigrati, lo scetticismo verso i mercati finanziari globali dopo la grande crisi, lo stallo degli accordi sul commercio globale sono tutti segnali di un processo stanco, che gli elettori e la classe politica fanno sempre più fatica a comprendere. E la percezione che la perdita di potere di acquisto delle classi medie sia dovuta alla sempre maggiore penetrazione commerciale di beni prodotti in Cina o in Messico ha certo favorito il ticket nazionalista di Trump. Invece di riflettere e ragionare su meccanismi correttivi che possano compensare e limitare gli inevitabili costi della globalizzazione, mantenendone però l’impianto e i benefici, oggi vince le elezioni chi propone un progetto fortemente nazionalistico fondato sul “noi prima degli altri”, sull’idea che la strada per la prosperità possa trovarsi unicamente all’interno dei confini nazionali. Il problema di questa strategia è che nega il principio di esternalità su cui si fonda la globalizzazione. Ossia l’idea che qualunque cosa scelga un paese avrà un impatto anche sugli altri. Se Trump alzerà i dazi, i suoi partner commerciali saranno danneggiati e alzeranno i dazi anche loro e tutti saranno più poveri. Oppure, se rigetterà gli accordi sull’ambiente Cop21, dimenticando che le emissioni degli Stati Uniti danneggiano gli altri e viceversa, aumenteranno le emissioni mondiali. Si rompe un contratto collettivo, ci si allontana da un obbiettivo condiviso (libero scambio multilaterale; emissioni globali ridotte) per portarsi su un altro (barriere doganali ed emissioni più alte per tutti) dove tutti staranno peggio. È paradossale che debba essere la Cina, il maggiore inquinatore globale dopo gli Stati Uniti, a ricordare a Trump i rischi di una strategia non cooperativa in campo ambientale. Se l’America di Trump diventa il campione del protezionismo e del dumping ambientale, la società occidentale non avrà più nulla da dire su valori condivisi di integrazione globale che ci possano portare verso un mondo migliore.