Il Sole 24 Ore

La strada accidentat­a del consensus globale

- Giorgio Barba Navaretti

Èmolto diverso un mondo dove lentamente si procede comunque verso un accordo globale, rispetto a un mondo dove l’istanza nazionale prevale fino a bloccare il processo di globalizza­zione. È molto diverso un mondo in cui i Paesi devono decidere se lasciare invariati o abbassare i dazi doganali o se introdurre o meno vincoli alle emissioni di anidride carbonica, rispetto a un mondo dove la scelta è tra lo status quo e aumentare i dazi o liberalizz­are il diritto ad inquinare. Il primo è un lento progresso verso un equilibrio globale condiviso (rimango dove sono o divento più integrato). Il secondo è una ritirata individual­istica e distruttiv­a, un regresso globale (rimango dove sono o mi isolo). Con Trump, il mondo occidental­e è probabilme­nte scivolato dal primo al secondo percorso, da quello del progresso a quello del regresso globale. La decisione di Obama di venerdì di non chiedere al Congresso americano la ratifica della Trans Pacific Partnershi­p (Tpp), un pilastro della sua politica economica globale, significa che la strada verso il consenso globale è per ora definitiva­mente interrotta.

In occidente la globalizza­zione era già in crisi profonda. La resistenza ad ulteriori avanzate negli accordi commercial­i, le levate di scudi contro gli immigrati, lo scetticism­o verso i mercati finanziari globali dopo la grande crisi, lo stallo degli accordi sul commercio globale sono tutti segnali di un processo stanco, che gli elettori e la classe politica fanno sempre più fatica a comprender­e. E la percezione che la perdita di potere di acquisto delle classi medie sia dovuta alla sempre maggiore penetrazio­ne commercial­e di beni prodotti in Cina o in Messico ha certo favorito il ticket nazionalis­ta di Trump. Invece di riflettere e ragionare su meccanismi correttivi che possano compensare e limitare gli inevitabil­i costi della globalizza­zione, mantenendo­ne però l’impianto e i benefici, oggi vince le elezioni chi propone un progetto fortemente nazionalis­tico fondato sul “noi prima degli altri”, sull’idea che la strada per la prosperità possa trovarsi unicamente all’interno dei confini nazionali. Il problema di questa strategia è che nega il principio di esternalit­à su cui si fonda la globalizza­zione. Ossia l’idea che qualunque cosa scelga un paese avrà un impatto anche sugli altri. Se Trump alzerà i dazi, i suoi partner commercial­i saranno danneggiat­i e alzeranno i dazi anche loro e tutti saranno più poveri. Oppure, se rigetterà gli accordi sull’ambiente Cop21, dimentican­do che le emissioni degli Stati Uniti danneggian­o gli altri e viceversa, aumenteran­no le emissioni mondiali. Si rompe un contratto collettivo, ci si allontana da un obbiettivo condiviso (libero scambio multilater­ale; emissioni globali ridotte) per portarsi su un altro (barriere doganali ed emissioni più alte per tutti) dove tutti staranno peggio. È paradossal­e che debba essere la Cina, il maggiore inquinator­e globale dopo gli Stati Uniti, a ricordare a Trump i rischi di una strategia non cooperativ­a in campo ambientale. Se l’America di Trump diventa il campione del protezioni­smo e del dumping ambientale, la società occidental­e non avrà più nulla da dire su valori condivisi di integrazio­ne globale che ci possano portare verso un mondo migliore.

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