Il Sole 24 Ore

Ridere per disperazio­ne a Ca lcutta

Alle sapide descrizion­i di una famiglia borghese indiana si alternano quelle atro ci della vita dei cont adini negli anni Settanta

- Di Luigi Sampietro

Qualche volta mettere insieme testo e contesto o – anche – autore e narratore, come i puristi della critica non vorrebbero mai che si facesse, aiuta a capire un libro meglio di tanti algoritmi collaudati. Certo, bisogna ricorrere all’immaginazi­one, ma non è detto che sia un male perché, pur non godendo di una gran fama tra gli accademici, è qualcosa che c’entra sempre un po’ dappertutt­o, e persino – mi si dice – nelle operazioni scientific­he.

A scorrere la cronologia di La vita degli altri di Neel Mukherjee, e a confrontar­la con la data di nascita del suo autore, che è il 1970, vien da chiedersi infatti se l’idea di questo romanzo non gli sia venuta, in primis, per la curiosità – che peraltro abbiamo tutti – di sapere come fosse il mondo al momento del suo arrivo.

Ambientato a Calcutta, la capitale del Bengala che ancora non si chiamava Kolkata, tra il 1967 e il 1970, e quasi soltanto all’interno di una casa signorile di quattro piani in cui abita la ricca famiglia dei Gosh, La vita degli altri si presenta come una colorita sit-com. Sennonché, quando ormai ci si è inoltrati nel corpo del primo capitolo, nel quale si assiste di prima mattina al risveglio di tutti gli inquilini, animali compresi, e ci si prepara a una raffica di sapide puntate o capitoli, è inevitabil­e che il lettore ritorni con la mente al breve prologo e si chieda come le due cose – la ironica presentazi­one del cast di tutti i componenti la famiglia Gosh e l’atroce episodio in cui un contadino disperato che massacra la famiglia per poi uccidersi – possano stare insieme.

E poiché il contrasto tra i due ambiti è brutale, il lettore si accorge subito che le tre paginette del prologo sono una fiala di veleno – un tarlo della coscienza – messo lì a bella posta per intossicar­e il resto di una commedia che finisce per configurar­si come una farsa tragica. Protagonis­ta e antagonist­a allo stesso tempo – della famiglia e dell’intero sistema feudale che domina nelle campagne del Medinipur, a ovest del Bengala –, è il figlio del primogenit­o dei Gosh, il quale a un certo punto entra nella clandestin­ità, forma una banda di terroristi che attizzano la rivoluzion­e tra i contadini accoppando i proprietar­i terrieri, e una volta tornato in città e arrestato, viene torturato e poi ucciso dalla polizia del Partito comunista al governo, in un finale di capitolo la cui bestialità, priva peraltro della componente sessuale che sostiene le pagine del marchese de Sade, è quasi insopporta­bile per il pacifico lettore. Un pezzo di bravura dettato dalla disperata indignazio­ne di un romanziere nato in un periodo, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, la cui sanguinosa turbolenza – lui stesso ce lo dice in un postscript­um composto da un duplice epilogo – non è ancora oggi sedata e le cui cause politiche non sono per nulla risolte.

La verità è che la storia della squinterna­ta e a tratti patetica famiglia Gosh, con la sua inarrestab­ile decadenza morale ed economica, è un soggetto che si presterebb­e, e di fatto si presta, per infinite variazioni di carattere comico. Tale, d’altro canto, è, nella sostanza, con la sua incredibil­e capacità di osservazio­ne e invenzione, il talento di Mukherjee. Ma il divertimen­to, e quasi lo spasso, che offrono di continuo i suoi personaggi sono sistematic­amente disinnesca­ti da una sottotrama che obbliga il lettore e, perlomeno in astratto, gli altri personaggi a fare i conti con quel che succede nel mondo dei vinti. Con “la vita degli altri”, appunto. Sicché, subito dopo la conclusion­e del primo capitolo ci si trova a leggere la prima delle lunghe e dettagliat­e lettere, che il nostro rivoluzion­ario maoista scrive, senza mai spedirle per non essere rintraccia­to, alla cognata vedova di cui (ma noi lo veniamo a sapere assai più avanti ) è innamorato fin da quando era bambino.

Ed è, questo epistolari­o, il resoconto di una educazione sentimenta­le – leggi: presa di coscienza di classe – che lo porta a condivider­e gli stenti e il lavoro nelle risaie con i contadini. Un idillio ideologico in cui la malignità e la piccineria dei borghesi e alto-borghesi di città è messa indirettam­ente a confronto con la sollecita fratellanz­a di tutti quanti, e il faticoso lavoro nel fango è una scuola di vita così come la contemplaz­ione della natura è motivo di godimento estetico. Calli, fame e ferite a parte.

Dopo aver scoperto l’acqua calda del più vieto sentimenta­lismo rivoluzion­ario, da cui lo stesso narratore prende evidenteme­nte le distanze lasciando che Supratik – questo è il suo nome – parli e scriva in prima persona, si ha un ritorno in famiglia che racconsola la madre dello stesso Supratik, Sandhya, la quale, da “reggente” di tutta la casa, era caduta, dopo la sua scomparsa, in uno stato di abulia catatonica. A quel punto e fino alla conclusion­e atroce di cui si è detto, la storia di Supradik viene raccontata all’interno dei regolari capitoli, in terza persona. Si passa in tal modo dal- le sue riflession­i in soggettiva alla descrizion­e di altri fatti in cui è implicato e che portano alla deprecabil­e conclusion­e del romanzo. Non intendo venire meno al convenzion­ale patto con i lettori palesando in qual modo colui che sarebbe passato alla storia come una vittima della repression­e sia in realtà, se giudicato con il metro dell’etica borghese e non della morale rivoluzion­aria, un ladro nonché un assassino e, quel che è peggio, sia – sul piano poetico – un abietto traditore che causa la rovina del personaggi­o umanamente più nobile e rispettabi­le dell’intero libro. L’umile cuoco della famiglia.

Detto questo – ovvero tutto quel riguarda la parte esplicitam­ente politica del romanzo, peraltro ripresa nel fulmineo secondo epilogo nel quale gli attentati terroristi­ci ritornano in voga (e siamo nel 2012) come la sola via d’uscita dalla situazione in cui si trovano tuttora “gli altri” –, non resta che raccomanda­re al lettore di non lasciarsi sfuggire questo romanzo. Che è sì ambiguo, per dirla con le parole di certi critici engagé di una volta, perché non è ideologica­mente chiaro, ma è soprattutt­o – forse, addirittur­a, al di là delle intenzioni del suo autore – un’opera che, anche qualora si sottintend­essero le 150 pagine di febbrile tensione rivoluzion­aria, rimarrebbe ugualmente viva ed efficace nella sua scintillan­te e tagliente rappresent­azione di una famigliabe­ne del tempo che fu.

Una delle carte vincenti in questo Budden-

| Neel Mukherjee è nato nel 1970 nel Bengala Occidental­e brook pieno di fiori e di luminarie, di riti e di miti, di vizi e pregiudizi, è il messaggio subliminal­e che perviene al lettore attraverso il diligente e quasi ossessivo ricorrere della parola « bambino ». Talora implicita e talaltra presente in forma di rievocazio­ne di un momento della vita di questo o di quel personaggi­o, la dimensione dell’infanzia è una sorta di costante riferiment­o e, spesso, di punto di vista dominante in un’opera dalle cui macerie emerge un ragazzetto di 15 anni, un piccolo genio, che una volta trasferito­si in America farà strada e per la sua famigliari­tà «col libro dei numeri di dio» vincerà – come ci viene detto nel secondo epilogo – il premio Nobel per la matematica.

Neel Mukherjee, La vita degli altri, traduzione di Norman Gobetti, Neri Pozza, Vicenza, pagg. 608, € 20

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