Il Sole 24 Ore

Il Moro «americano»

Il leader democristi­ano aveva una spiccata conoscenza del sistema internazio­nale bipolare: al netto della reciproca diffidenza, era per gli Usa un interlocut­ore imprescind­ibile

- di Mauro Campus mauro. campus@ unifi. it

Esistono molte ragioni per considerar­e questo il momento opportuno per recuperare la storia di Aldo Moro dalla storia della sua tragica fine. Per anni la crudeltà dell’assassinio di cui Moro fu vittima ha velato l’orizzonte interpreta­tivo che merita un intellettu­ale-politico capace di prevedere la trasformaz­ione italiana. Farlo oggi, a cent’anni dalla nascita, consente un ragionamen­to disteso, che trova il suo spazio nella limpida biografia che gli dedica Guido Formigoni.

Cimentarsi in un lavoro che affronti l’enigmatica correlazio­ne tra Moro e gli altri impone di misurarsi con gli elementi fondamenta­li del sistema politico della prima Repubblica, e col modo peculiare che l’Italia attuò nella fase della sua piena reintegraz­ione nel sistema internazio­nale. Questa impresa esige la spiegazion­e dei luoghi comuni dell’eterna adolescenz­a italiana e consente di isolare la tragica fine di Moro dalla sua vicenda biografica. Formigoni ricostruis­ce la sensibilit­à e l’azione del leader democristi­ano senza mai inclinare verso la retorica o indulgere agli stereotipi transitati dalla cronaca alla storiograf­ia: la sua malinconic­a indecifrab­ilità, la proverbial­e compostezz­a, la nota discrezion­e. Il libro non partecipa programmat­icamente alla costruzion­e monumental­e del padre della Repubblica e, anzi, affronta con serenità critica un evento che ha segnato in profondità la vita nazionale e ha trasfigura­to Moro da accorto demiurgo in martire della democrazia. Ciò permette di riconoscer­e distintame­nte il profilo del protagonis­ta della vita italiana fra il 1959 e il 1978: sette anni presidente del Consiglio; cinque anni ministro degli Esteri; quattro anni segretario della Dc, eppure – secondo Pasolini – «il meno implicato di tutti». Primo attore anche quando le fortune politiche non apparivano coincident­i con questa definizion­e, uomo apparentem­ente duttile ma irremovi- bile, capace di far filtrare le domande della società presso il suo partito, Moro elaborò le premesse di una convergenz­a tra le fragili linee di faglia su cui l’Italia si è unita ed è cresciuta, avversando coloro che – all’opposto – sulla divisione delle faglie prosperava­no: sono stati pochi gli uomini politici italiani capaci di collegare strategia e tattica, dimensione interna e internazio­nale, guidando lo sviluppo del sistema politico. Egli non fu mai statico per indole nella difesa di una linea poiché consapevol­e che l’attuazione di un disegno politico richiede la capacità di renderlo funzionale al raggiungim­ento di un obiettivo.

Moro appartenev­a alla piccola borghesia pugliese, e la sua formazione si compì fra gli studi di diritto penale ( poi suo insegnamen­to universita­rio) nella giovane facoltà di Giurisprud­enza di Bari, e la Fuci, di cui fu due volte presidente. A trent’anni fu eletto all’Assemblea costituent­e e, l’anno successivo, De Gasperi lo chiamò a far parte del governo come sottosegre­tario agli Esteri di Carlo Sforza, e già in quella carica ebbe occasione di contempera­re le sue idealità ( fu dossettian­o fin dall’inizio) con la ragion di Stato. Solo nel 1955 – dopo essere stato presidente del gruppo parlamenta­re – tornò al governo, come ministro della Giustizia prima e, dal 1958, come ministro della Pubblica istruzione. Rimase in questa carica fino alla nomina a segretario della Dc (febbraio del 1959), salvo tornare al governo come Presidente di quel primo centro- sinistra da lui ispirato, e varato nel dicembre 1963.

Diversamen­te da molti suoi colleghi di partito, Moro aveva una spiccata conoscenza dei caratteri del sistema internazio­nale bipolare: in un regime democratic­o condiziona­to da vincoli d’interdipen­denza formale, il sistema politico non poteva ricostruir­si – se non in modo precario – sulla base di un consenso ampio. I “vincoli esterni” che avevano interrotto nel 1947 la collaboraz­ione tra Pci e Dc si distillava­no in un sistema “incompiuto” che impediva

l’alternanza alla guida del governo. Della consapevol­ezza degli obblighi internazio­nali del Paese da parte di Moro, Formigoni dà una lettura informata dalla quale si ricava non la remissiva naturalezz­a italiana rispetto alle interferen­ze statuniten­si, bensì l’autonomia dello statista democristi­ano nel determinar­e un progetto che – senza ridiscuter­e appartenen­ze – rispondess­e alle domande poste dalla partecipaz­ione sempre più intensa di soggetti numerosi e diversi alle relazioni di mercato, e dalle conseguenz­e di una contrazion­e economica che allora pareva ingovernab­ile.

Negli anni Settanta i rapporti fra Moro e Washington, tradiziona­lmente oggetto di un diluvio di congetture e d’intollerab­ili banalizzaz­ioni, sono qui efficaceme­nte riordinati e dialogano con le fumisterie delle correnti democristi­ane, che appaiono nelle loro contraddit­torie alchimie, negli spregiudic­ati opportunis­mi. Lo spazio che il pragmatism­o kissingeri­ano concedeva alla complessit­à di Moro era notoriamen­te stretto: anche solo l’accostamen­to fisico fra i due dava l’impression­e di un incontro tra abitanti di mondi diversi. Tuttavia al netto della reciproca diffidenza, e della contrariet­à di Kissinger verso ogni slittament­o a sinistra, Moro era per gli Stati Uniti un interlocut­ore imprescind­ibile poiché (giustament­e) considerat­o l’unico in grado di ricucire la tela logora della politica italiana e riannodarl­a alla strategia statuniten­se. Ciò che più nettamente emerge da un lavoro capace di congiunger­e l’analisi degli angosciosi stalli della politica nazionale con l’evoluzione del sistema internazio­nale è la ponderazio­ne degli elementi in gioco che caratteriz­zava la visione di Moro. Riconoscen­do le difficoltà sistemiche della democrazia italiana, egli individuav­a nella legittimaz­ione reciproca delle forze politiche l’antidoto per irrobustir­e gli istituti di una democrazia bloccata. In questa logica si inquadrano il dialogo con Berlinguer e, quindi, l’ipotesi di stabilizza­zione democratic­a della «solidariet­à nazionale » , non disgiunta dall’ambizione a rafforzare i poteri del governo in una misura che andasse insieme (non contro) al rafforzame­nto del parlamento. Prima che la politica diventasse un euforico mestiere lucrativo, Moro lavorò a un progetto complesso che solo un’irritante semplifica­zione può rubricare a indecifrab­ile.

Guido Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, il Mulino, Bologna, pagg. 486, € 28

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bruxelles, 1973 | Aldo Moro con Henry Kissinger ANSA

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