Il Sole 24 Ore

Tra chiesa e partiti senza statuto

- di Piero Craveri

Agostino Giovagnoli con la Repub

blica degli italiani ha compiuto un lavoro ben strutturat­o, ricco di riflession­i interessan­ti. Egli è stato allievo di Pietro Scoppola, lo storico cattolico che negli anni 70 aveva scolpito i profili della “Repubblica dei partiti”, facendo della “solidariet­à nazionale”, con la partecipaz­ione dei comunisti alla maggioranz­a di governo, un approdo non transeunte, come poi storicamen­te invece è stato, ma logicament­e intrinseco all’evoluzione dell’intera vicenda politica della Repubblica. Trent’anni dopo Giovagnoli ci ripropone questo assunto come canone interpreta­tivo della sua storia. Quanto avvenne dopo, in particolar­e la seconda Repubblica, diviene così solo un crepuscolo senza costrutto, una transizion­e non compiuta, e su questo è difficile non convenire.

Ma quanto è avvenuto prima, l’intera storia della prima Repubblica, ebbe tutt’altro segno e la proposta “politica di De Gasperi” era, infatti, di natura opposta. La concezione di De Gasperi della democrazia parlamenta­re non era neppure quella della “Repubblica dei partiti”, che fu realizzazi­one della seconda generazion­e democristi­ana e si consolidò definitiva­mente col centro sinistra. La sua idea del centrismo e della possibile evoluzione di questo non prevedeva alcun accordo, tantomeno stabile, con i comunisti. E ciò è rimasto un presuppost­o inalterato fino al 1992, potremmo dire un canone, per quanto controvers­o, della costituzio­ne materiale della Repubblica. Anche Moro, che pure patrocinò una collaboraz­ione di governo con il PCI, non la concepì come un approdo definitivo del sistema politico, ma come un necessario momento di transizion­e, di cui non ebbe il tempo di delineare il percorso, verso un sistema non più centrista ma alternativ­o. Non è un caso infatti che nella ricostruzi­one di Giovagnoli dei drammatici anni 70 non vi sia la meditata prospettiv­a di Moro, bensì il “compromess­o storico” di Berlinguer, i cui limiti furono poi messi in evidenza dalla sua rapida eclissi.

In Giovagnoli la centralità della Dc si accompagna a un’analisi del suo rapporto con la Chiesa cattolica. Comprende dense pagine che sono tra le più interessan­ti del libro rispetto ad altre ricostruzi­oni storiche. Se ne trae il costrutto che la Chiesa si è fatta carico dei mutamenti avvenuti nelle società occidental­i fin dagli anni 60 con ben altra profondità di analisi della Dc. Fin dagli esiti del Concilio Vaticano II la Dc ha cercato soltanto di adeguarsi a essi. Diversamen­te, nei quasi cento anni che precedono quell’evento, il movimento politico dei cattolici in Europa aveva precorso la Chiesa nel suo approccio alla contempora­neità. E il problemati­co rapporto tra la Chiesa e la Dc maturò già nella fase postconcil­iare, quali siano stati gli sforzi di Paolo VI per porvi rimedio, nel mutamento antropolog­ico che segna quell’epoca.

Manca in questo libro una analisi esaustiva su un punto decisivo della trasformaz­ione della società italiana, perché essa non si allineò soltanto ai canoni di secolarizz­azione e di laicità degli altri Paesi dell’Occidente, ma divenne a pieno titolo una società “capitalist­ica”, senza riuscire poi a consolidar­ne la base industrial­e e finanziari­a e ad affrontare in modo stabile i processi di conflittua­lità che da ciò naturalmen­te conseguiva­no, donde la crisi profonda degli anni 70, che nei seguenti anni 80 venne solo parzialmen­te risolta. Questo insuccesso ha segnato profondame­nte la storia della Repubblica e ce lo troviamo innanzi più che mai oggi.

Di qui un’altra consideraz­ione è necessaria. Quando diciamo “partiti”, intendendo­li come i tramiti indispensa­bili tra le istituzion­i e la società, dobbiamo vedere quale “forma” essi hanno assunto. In Italia nulla ha regolato costituzio­nalmente e legislativ­amente, il loro statuto democratic­o, né il finanziame­nto pubblico e privato, né il loro rapporto con l’amministra­zione pubblica, a differenza di quanto successo in altre democrazie europee. Tutto ciò ha comportato una competizio­ne politica per la raccolta del consenso elettorale che è entrata in contrasto con lo sviluppo industrial­e del Paese, alterando profondame­nte la gestione del bilancio dello Stato e distorcend­o le modalità di erogazione del credito, aprendo inoltre la strada ad abnormi fenomeni di corruzione. L’approdo alla moneta unica, per le regole che questa ha comportato, era in contrasto profondo con questo assetto della nostra “democrazia consensual­e”. E senza una consideraz­ione attenta dei parametri di Maastricht è difficile misurare anche la storia della seconda Repubblica.

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